di Gian Paolo Manzella
Negli ultimi anni lo "Stato Finanziatore" ha incontrato la parte più innovativa del mercato finanziario: quella del venture capital. Si sono così moltiplicati schemi di finanziamento pubblico a sostegno delle prese di partecipazione nel capital di startup e PMI innovative.
In una prima fase – collocabile alla fine del secolo scorso - l'evoluzione europea ha avuto due forme: la creazione di Fondi specializzati nell'investimento nel capitale di rischio in collaborazione con privati e, dal punto di vista normativo, la definizione di modalità di intervento rispettose della regole in materia di aiuti di Stato. Negli anni successivi vi è stata la creazione di nuovi organismi, specificamente dedicati a questo segmento del mercato dei capitali.
L'Italia non fa eccezione in questa tendenza. Prima con Fondi specializzati su singoli ambiti e poi con la creazione di strutture dedicate: nel 2010, il Fondo Italiano d'Investimento, attivo al suo avvio nel Venture capital per poi specializzarsi nel Private Equity; nel 2019, il Fondo Nazionale Innovazione (FNI), che è oggi l''istituzione cardine' del Venture Capital italiano.
Nonostante questa azione, il nostro Paese è ancora indietro.
Prima di tutto dal punto di vista quantitativo. Anche con l'aumento registrato negli ultimi anni, il mercato del VC italiano è ancora piccolo. Vale l'1% del mercato europeo, pesa lo 0.06% del GDP: per capirci, la proporzione in Spagna è circa 4 volte maggiore. Francia ed altri paesi dell'Europa occidentale sono lontanissimi: al miliardo di euro che ogni anno è investito in Italia corrispondono i 5.4 miliardi tedeschi, i 7.4 francesi ed i 2,5 dell'Olanda.
Il numero di fondi del mercato italiano è anch'esso ancora lontano da quello che si registra in altri ordinamenti.
Soprattutto, il mercato italiano è ancora molto, troppo, diseguale: mentre la Lombardia, nel 2021, ha visto 141 operazioni di private capital (per il 72.8% dei volumi) ed il Lazio 29, la Puglia ne ha contate solo 4, la Sardegna 3, la Campania 8.
Per una crescita sistemica del Venture capital italiano c'è dunque un lavoro da fare, su più piani.
Il primo è aumentarne la dimensione finanziaria allineandola a quella di altri Paesi. Un passaggio che potrà avvantaggiarsi di una dimensione europea sempre più attenta al tema: dalla politica di coesione alle attività del Gruppo Bei. Sul piano nazionale, invece, ci dovrà essere la messa a pieno regime del FNI, che nel suo poco tempo di operatività ha già cominciato a 'cambiare le cose', e, finalmente, una piena partecipazione degli investitori istituzionali, a cominciare da Casse di Previdenza e Fondi pensione.
Un secondo aspetto è curare la transizione verso il mercato dei capitali di queste imprese. E quindi, in linea con le indicazioni europee di politica industriale, stimolare la nascita di fondi specializzati nella quotazione in Borsa delle PMI (c.d. IPO Funds) e nella loro crescita dimensionale (c.d. Scale Up Funds) in modo da evitare che, come accade, le imprese innovative più promettenti finiscano per essere acquistate da fondi stranieri, il più delle volte extraeuropei.
Terzo profilo è aumentare gli spazi di collaborazione tra Università e impresa e tra Grandi imprese e startup. Già oggi questi legami, essenziali per dare solidità agli ecosistemi, continuano a crescere: sia sotto l'impulso di privati consapevoli dei vantaggi della collaborazione con le startup, sia con iniziative pubbliche come i poli di trasferimento tecnologico e la rete di acceleratori promossi dal FNI o gli ecosistemi dell'innovazione previsti nel Piano Italia Domani. Una tendenza che va sostenuta, con attenzione prioritaria a obiettivi e risultati.
C'è, infine, l'esigenza di maggiore omogeneità territoriale nel ricorso al Venture Capital, uno snodo cruciale per assicurare effettività al binomio innovazione-coesione riaffermato dalla Commissione proprio in questi mesi (e con recenti echi negli Stati Uniti). Un'ipotesi potrebbe essere la creazione di un Fondo di Fondi per promuovere operatori del capitale di rischio specializzati (e localizzati) nelle aree più arretrate del nostro Paese. Pubblico e privato insieme, dunque, per portare il Venture Capital nel Mezzogiorno e affrontare uno dei temi della 'geografia dell'innovazione' italiana (ed europea).
Con la consapevolezza che c'è in gioco molto più di una semplice vicenda finanziaria. Ci sono nuova impresa innovativa, un dialogo diverso tra Università e industria e, più in generale, la creazione di 'contesti' capaci di attrarre talenti e alleviare il brain drain che penalizza le aree meno sviluppate del nostro Paese. Affrontare questa ennesima 'diseguaglianza italiana' è, insomma, un passaggio cruciale per il nostro futuro industriale. E non solo per quello.