di Raffaello Savarese
Non abbiamo atteso lo sdoganamento del New York Times per disertare il coro delle prefiche che stigmatizzavano la restituzione della parola agli elettori e la dipartita dal Palazzo del “migliore dei capi di Governo”. L’avversione per le elezioni aveva, in questi lunghi mesi, unito quelli a cui piacciono più le élite degli eletti a quegli altri a cui piacciono più le piazze delle urne, insieme agli scappati di casa che identificavano la stabilità del Paese con l’autoconservazione della poltrona. Neppure al Presidente degli italiani (più di alcuni che di altri, ci è parso spesso) garbano molto le votazioni: recarsi ai Referendum – egli diceva – è un diritto, non un dovere. Quasi un viatico all’astensione. E infatti il servizio pubblico televisivo e i media addomesticati raccolsero l’invito alla sordina. Un oscuramento o poco meno: molti non sapevano neppure che si votasse.
La riluttanza del Presidente a sciogliere le Camere aveva indotto forze, che più male assortite non potevano essere, a convivere in una precaria e indotta coabitazione. E il risultato è stato disastroso sotto molti punti di vista, in primis, snaturando i tratti distintivi dei partiti interessati. Talvolta, demotivando e allontanando i rispettivi elettorati, disorientati dagli indirizzi che la coabitazione obbligata comportava. Oggi si sa che si tornerà alle urne, perché il Governo Draghi si reggeva su un artificiale equilibrio parlamentare che non rispecchiava, ormai da tempo, il sentire del Paese. Ma questo difficile approdo al più democratico esercizio della sovranità popolare è stato dipinto nei media, e nei circoli di potere, come un atto di scellerata irresponsabilità nel guado delle grandi emergenze: via con il cahier de doléance apocalittico di peste, guerra, cambiamenti climatici, siccità, economic recovery, carestia di grano e di gas. Ci mancano solo le cavallette.
In questa legislatura son stati utilizzati, come non mai, terrore e insicurezza come strumenti per far digerire alla cittadinanza qualsiasi imposizione liberticida, in nome di questa o quella emergenza che, da straordinaria e contingibile, è diventata ordinaria routine per sospendere i diritti di ciascuno e i normali processi democratici di tutti. Solo da noi è così; raramente accade altrove. Siamo l’unico Paese dove si inseguivano con i droni, sulle spiagge deserte, i runner renitenti al lockdown. O si obbligavano al vaccino, sulla base delle false promesse dell’immunità di gregge, anche adolescenti che non correvano alcun rischio dal contagio. Non sia mai esporre la popolazione al “pericolo” di recarsi, anticipatamente, alle urne, ricettacolo di virus (e di potenziali esiti sgraditi alle sinistre). Siamo ancora tra gli ultimi Paesi europei a mantenere insensati obblighi di quarantena – così per non perdere l’abitudine alle costrizioni – contro la pestilenza che sta diventando, ormai, letale come un’influenza stagionale.
Eppure, la pandemia o tutte le altre calamità e piaghe sopra elencate non hanno impedito, fino a oggi, a tanti Stati europei ed extraeuropei di indire le elezioni, in taluni casi ripetendole anche a stretto giro. Nel suo discorso in Parlamento, il 20 luglio scorso, Mario Draghi evocava la mobilitazione di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del Governo. È mancato qualcuno che gli facesse notare perché i cittadini si debbano esprimere in queste sedi “extra-istituzionali”, quando hanno opportunità e diritto di farlo, democraticamente, nelle urne. Molti sospettano che Draghi, ancora malmostoso per aver perso il Colle più alto, in realtà abbia colto l’occasione per abbandonare la nave, prima della tempesta perfetta che ci aspetta in autunno e che egli ha contribuito a seminare. Infatti, quanto ai risultati millantati, se si guarda bene, il suo Esecutivo ha conseguito ben poco: le mezze riforme di giustizia, fisco, appalti compiute solo quel tanto che basta per sbloccare la prima tranche dei soldi con l’elastico del Pnrr. Debito da spendersi per inclusività, parità di genere, progetti ambientali e altre lussuose amenità, quando questo inverno correremo il serio rischio di razionamenti energetici e il fermo dell’industria. Realizzeremo progetti di decarbonizzazione mentre, a corto di gas, bruceremo ancora più litantrace nelle vecchie centrali.
Chi piange il naufragio del “Governo della provvidenza”, evoca la mistica del politico più rispettato all’estero. Guardate se ai nostri partner europei gli frega qualcosa che i governanti che si scelgono siano in graduatoria tra i più considerati a livello internazionale. Le conseguenze dell’allontanamento di Draghi vengono declinate dalle voci adulanti della stampa, in toni più comici che nostalgici: senza di lui sono a rischio la lotta al Covid, la vittoria contro l’invasore russo, la campagna contro i cambiamenti climatici. Ci manca solo l’estinzione dell’orso marsicano o del muflone sardo. Quel mondo progressista che, gelatinoso e svuotato di idee, ha fatto di Draghi una icona, in realtà denigra l’elettore italiano come se egli non fosse in grado di elaborare con maturità da chi farsi governare. Eppure, la nazione è cresciuta per merito dell’ingegno dei suoi privati cittadini, non grazie – anzi, spesso nonostante – l’intervento dello Stato e dei suoi governi.
Quanto al senso di responsabilità, le imprese e le famiglie sono i migliori gestori delle proprie finanze di quanto lo sia il Moloch della Pubblica amministrazione. Ne è evidenza l’ingente ammontare della ricchezza privatarispetto al buco senza fondo dei conti pubblici affossati da spesa inefficiente, spesso inutile o clientelare. Come i bonus a pioggia e la liquidità immessa a debito nell’economia, che hanno gonfiato artificialmente il Pil. Se ne sono accorti i cittadini, quando pagano le bollette, fanno il pieno alla pompa di benzina o la spesa al supermercato.
Proprio su questi risparmi privati le sinistre vorrebbero mettere le mani – dando il colpo di grazia a quella classe media, percepita a esse ostile – per dar compimento alla propria vocazione egualitarista, anti-meritocratica e intrusiva. Insieme al progetto di sempre di modulare le nostre libertà secondo il disegno di uno Stato Etico che decida, per il bene dei suoi sudditi, quali debbano essere i loro bisogni e le loro aspirazioni. Perché se gratti bene, sotto a ognuno di questi progressisti ci trovi sempre un nostalgico comunista. Sta a noi fermarli, finché la sovranità continuerà ad appartenere al popolo. Non restiamo a casa il 25 settembre, se vogliamo mandare a casa i responsabili della rovina del Paese.