di Susanna Schimperna
Il 21 settembre 1870 appare sul «Pacific Appeal», quotidiano di San Francisco, un proclama in cui l'imperatore Norton I ingiunge al Grand Hotel di fornirgli una stanza adatta a mettere su famiglia. Perché, arrivato a cinquant'anni senza mai aver pensato all'amore, adesso che il suo amico Charles A. Murdock, suo stampatore ufficiale, gli ha fatto balenare l'idea, Norton ha deciso di passare subito all'azione, come è suo costume: troverà una degna sposa, e prima ancora una degna abitazione in cui condurre felicemente e regalmente la vita matrimoniale.
Joshua Abraham Norton, vagabondo senza un soldo che nessuno sapeva da dove venisse, si era presentato un giorno di settembre di undici anni prima nella redazione del «San Francisco Daily Evening Bulletin», il principale quotidiano della città, con un cappellino militare scolorito, un paio di spalline lise, una divisa dell'esercito di almeno due misure più grandi. Porgendo un foglio al direttore Fitch gli aveva cortesemente ma autorevolmente chiesto di pubblicarlo «con pieno risalto». Oberato da una serie di eventi drammatici di cui parlare, Fitch aveva pensato che, tutto sommato, quello scritto surreale poteva costituire una nota leggera in un numero che sarebbe stato altrimenti tutto listato a lutto, per cui davvero lo pubblicò. Con un'avvertenza che iniziava così: "Abbiamo un imperatore tra noi?". Niente di meglio per catturare subito l'attenzione del pubblico.
Il proclama con cui Norton, dichiarandosi imperatore degli Stati Uniti, ordinava ai rappresentanti dei diversi Stati dell'Unione di riunirsi in assemblea in modo da procedere alla modifica delle leggi esistenti al fine di "correggere i mali sotto i quali questa nazione si trova a operare", non suscitò soltanto divertita sorpresa, ma ebbe un successo del tutto imprevedibile: le copie andarono esaurite, e da quel momento iniziò per Joshua un periodo d'oro, fatto di eventi pubblici a cui veniva invitato e se non invitato comunque accolto con calore, proclami che i giornali facevano quasi a gara a pubblicare, manifestazioni di simpatia ovunque, persino monete e bonds che lui stesso si faceva stampare (da Murdock, che ne divenne amico) e patrocini che graziosamente concedeva, perché esercizi commerciali, feste e riunioni avevano più visibilità se nelle insegne o negli inviti si poteva citare il nome dell'imperatore.
Nel sorprendente e bel libro «L'imperatore d'America», storia favolosa del vagabondo che si fece re (ed. Utet), Errico Buonanno spiega in modo convincente (e toccante) le ragioni di tale entusiasmo: «Faceva proclami anche condivisibili. Un po' populista e qualunquista, sicuro. E tuttavia sofisticato. Chi leggeva i suoi editti, ridacchiando, diceva anche: "Magari!". Abolire il Congresso, mandare a casa i partiti, finirla con frode e corruzione... Norton faceva simpatia. Vaneggiava con molta compostezza: era evidente che leggesse i giornali, che fosse in formato su ogni questione politica ... Non c'era una frase fuori posto, non c'era mai un termine sbagliato. Psicotico, sì, ma ragionevole e colto. Proprio per questo, irresistibile».
Norton si schiererà platealmente contro il capopopolo Kearney che vuole risolvere con brutalità la "questione cinese", dichiarando nei suoi proclami che invece l'immigrazione porta vantaggi per tutti, e che comunque «gli occhi dell'Imperatore saranno sempre puntati su coloro che dovessero fomentare ogni oltraggio o torto ai cinesi». Vuole estendere il voto alle donne. Pretende che le persone di colore possano viaggiare sui mezzi pubblici e ordina l'arresto di chiunque osi violare il suo decreto. Si propone come mediatore tra nativi americani e autorità statunitensi perché pensa i nativi vadano rispettati. Ordina che le varie Chiese smettano di litigare tra loro e che si uniscano in una Religione Universale per preservare la pace universale e contro la bigotteria, la ciarlataneria e "altre sciocchezze".
Amato, sostenuto e sostentato dall'intera città (nessuno chiede denaro a Norton, né sul bus o sul treno, né al ristorante), a un certo punto lui prende a girare con due amici fidati: Bummer e Lazarus, cagnetti meticci che ha salvato dalla fame e dalle botte, e la cui morte farà piangere tutti. Ancora più lacrime per lui, che l'8 gennaio 1880, sotto la pioggia battente, cade sul selciato a faccia avanti, nel fango di una pozzanghera. In tasca gli trovano la chiave della stanza di un alloggio popolare, alcune monete, un mazzo di buoni del tesoro da cinquanta centesimi con su stampata la sua faccia e alcuni telegrammi da parte dello zar e del presidente francese che parlano del suo matrimonio con la regina Vittoria (sì, l'aveva progettato). Gli verranno resi gli omaggi che si tributano a un regnante. Bandiere a mezz'asta, imposte di negozi e uffici serrate, diecimila persone accorse a salutarlo. «La scomparsa del primo cittadino di San Francisco... non avrebbe suscitato un'emozione pari a quella che genera la morte di questo vecchio indifeso, la cui monomania non ha mai intaccato la bontà del suo cuore e a malapena ha scalfito la sua mente un tempo acutissima» (dal «Morning Call» del 9 gennaio).
Scrive Buonanno: «L'avevano fatto entrare gratis a teatro, gli avevano fatto ispezionare i cantieri. Per divertirsi, avevano dato valore ai suoi bond, gli avevano fatto incontrare veri capiti di stato e avevano pubblicato per anni le sue parole in prima pagina. Pensavano di prendere in giro Norton, e magari avevano tutti finito per essere presi in giro da lui».
Nel 1935 viene inaugurato il Bay Bridge e tre anni dopo forgiata una targa commemorativa dedicata a lui, Norton, che più di sessant'anni prima quel ponte l'aveva ideato. Nella San Francisco della controcultura, Norton I diviene nume tutelare, icona, simbolo dell'immaginazione al potere. E nel 1974 viene fondato The Imperial Council of San Francisco, un club di devoti che ogni anno organizza una vista alla sua tomba, la tomba di Norton I, Imperatore degli Stati Uniti e Protettore del Messico.