di Michele Mezza
Le previsioni degli esperti danno Lula per vincente al ballottaggio di fine ottobre, contro Bolsonaro. Al leader della sinistra mancano solo 2 milioni di voti, mentre il presidente uscente deve recuperarne almeno 8. Ma al netto dell'aritmetica il voto brasiliano non ha fatto certo ballare il samba alla sinistra, né in America latina e tanto meno in Europa.Proprio le attinenze fra i dati sociali delle elezioni fra Brasile e Europa dovrebbero preoccupare, invece mi pare di vedere una certa esorcizzazione che ha frettolosamente archiviato il risultato di un paese candidato a essere nei prossimi dieci anni una potenza globale. Eppure in quelle elezioni ci sono, con evidenza solare, come il confronto nella direzione del Pd ha drammaticamente confermato, tutte le componenti, ingrandite ed esasperate, che oggi incombono anche nel nostro dibattito. Sarebbe proprio utile invece focalizzare una discussione sui dati del voto brasiliano. Soprattutto sulla delusione che ha comportato per chi, e non erano pochi, aveva previsto ben altra passerella per Lula. Lo slancio che i sondaggi accreditavano alla candidatura di Lula pareva sufficiente a regolare i conti con Bolsonaro fin dal primo turno. Del resto non era eccessivo immaginare che la peggiore presidenza della storia moderna del paese, con risultati catastrofici in tutti i settori portanti, dall'economia all'ambiente fino all'ordine pubblico, per non parlare dalle tragedia del covid, avrebbero inevitabilmente condannato l'amministrazione in carica. Invece l'eccentrico e impresentabile Bolsonaro ha mostrato una resilienza imprevedibile, sia in quantità, superando di dieci punti quanto gli accreditavano i sondaggi, sia in qualità, prendendo voti in maniera distribuita da aree sociali molto diversificate, e registrando risultati imprevisti persino nelle grandi città, a partire da Rio e San Paolo. Il tutto contro una sinistra che una volta tanto aveva un candidato universalmente riconosciuto come autorevole e condiviso, con grandi capacità dio unire il fronte delle forze progressiste, credito internazionale e anche capacità di attrazione negli strati moderati. Allora cosa non ha funzionato? Perché in una situazione considerata ideale per caratteristiche soggettive e oggettive la sinistra non sfonda contro la peggiore destra del contente? Perché in un paese con il 35% di poveri, con fortissimi nuclei di classe operaia, con un cento medio produttivo in ascesa, con un forte movimento ambientalista, con una componente consistente di minoranze etniche discriminate, con tutto questo mosaico che doveva dare nerbo e senso a una proposta di sinistra ancora di matrice classista e socialista, la destra non solo tiene ma tende a pescare in bacini popolari? Come spiega l'ex presidente dell'istituto di geografia statistica brasiliano ai tempi di Dilma Roussief, Wasmalia Bivar, la prima donna che ha presieduto la commissione statistica dell'ONU, la mappa del voto ha aspetti sorprendenti. In particolare ci sono aree, sia nel sud del paese, dove tradizionalmente la destra è più forte fra latifondisti e grandi impresari, ma anche nel nord est e nelle città costiere, in cui Bolsonaro raccoglie i voti dei cosidetti penultimi. Le aree più disagiate e povere hanno votato in massa per Lula, ci conferma la professoressa Bivar, ma già nei settori appena meno esposti, lavoro precario, favelas metropolitane, zone minerarie, in cui il fronte popolare si è diviso. Da una parte un'alleanza fra reparti di classe operaia, ceto medio intellettuale e comunità diseredate e perseguitate, come in Amazzonia, dall'altra rendita finanziaria, consistenti settori della speculazione immobiliare e agro industriale tutto il mondo dell'allevamento e, componente ancora sconosciuta in europa, comunità religiose fondamentaliste, che hanno spostato milioni di voti popolari. Una geografia che per certi versi accomuna il Brasile a Italia e Svezia, con le ovvie caratteristiche locali. Trasversalmente infatti il tratto comune delle elezioni che si sono tenute in questi paesi è proprio un consistente voto popolare alla destra estrema, diciamo una sorta di trumpismo esportato. È qui che la sinistra non trova linguaggi e forme di ricomposizione del disagio che porta ceti disperati ad accodarsi a schieramenti plebiscitari e rancorosi. Il collante è l'anti elitarismo, quella forma di predestinazione che vede la borghesia progessista combattere per i diritti civili ma non mischiarsi negli equilibri sociali alle fasce inferiori. Le scuole, le frequentazioni, i lavori, le opportunità, rimangono separate fra bianchi ricchi, anche se di sinistra, e moltitudini popolari periferiche. Inoltre agisce in queste aree un processo di individualizzazione che, nel caso italiano abbiamo chiamato sindrome dell'amica geniale, riferendoci ai romanzi di Elena Ferrante su Napoli, la città più brasiliana dell'Europa, dove si ricava che ognuno vive individualmente la sua povertà e concepisce singolarmente i modi per emanciparsi. Cade in questo scenario l'elemento che distingue la destra dalla sinistra: la trasformazione collettiva della società, il movimento che muta lo stato delle cose per tutti. Quello che nel 900 avevamo etichettato complessivamente per socialismo, un concetto in cui confluivano il rivoluzionarismo d'avanguardia con le cooperative riformiste e i movimenti conflittuali sindacali, in cui la bandiera era proprio: l'unione fa la forza. Oggi il messaggio della destra che rielabora il lutto della perdita del lavoro mediate una riconfigurazione dei processi di protagonismo sociale basati sulle nuove tecnologie digitali, in cui ogni singolo utente deve trovare un occasionale rappresentante, personale, singolo. Questa è la vandea digitale che la sinistra non riesce ad aggredire e di cui rimane vittima. Il voto brasiliano ce lo spiega nitidamente. E altrettanto nitidamente noi lo esorcizziamo. Parlando di simboli, nomi o segretari da cambiare.