di Giuseppe Colombo
Non c'è niente di più di un governo "pienamente politico" - copyright Giorgia Meloni - di un governo che rivendica "il dovere di sfruttare appieno i giacimenti di gas" in fondo al mare, come dice sempre la premier nel suo primo discorso davanti al Parlamento. Negli ultimi vent'anni tutti i presidenti del Consiglio si sono dovuti misurare con il prezzo politico delle trivelle. Quasi tutti, da Silvio Berlusconi a Giuseppe Conte, hanno agito in modalità conservativa, fatta di limiti e paletti. L'hanno potuto fare perché di metano ce n'era in abbondanza, Putin era un fornitore affidabile e i prezzi erano così bassi che scavare in casa propria non era neppure conveniente. Per le ragioni opposte, per una guerra in corso che è energetica almeno quanto è militare, la leader di Fratelli d'Italia deve agire in senso opposto. Insomma trivellare, altro che tenere le boe del divieto a 12 miglia dalla costa.
Serve una decisione che è politica e serve, come sottolinea, "un po' di coraggio e di spirito pratico". E non c'è niente di più dell'anteporre l'interesse nazionale - altro passaggio fondante dell'intervento - che trivellare nei "nostri" mari, espressione che serve a indicare qualcosa di esclusivo, che appartiene visceralmente alla Nazione, insomma da strappare agli altri, quando il mare invece è per definizione aperto e condiviso. Anche qui bisogna scegliere e per di più in autonomia. E il prezzo sale perché se salta la cornice europea, a cui il governo comunque guarda, allora fare in casa significherà anche assumersi i rischi di scelte unilaterali che possono funzionare come no.
Condivisibile o meno, l'autarchia energetica del centrodestra al governo nasce da una doppia esigenza, che è al tempo stesso una doppia scelta imposta dalla crisi del gas. La prima è quella di dare un'impronta politica alla contingenza del caro bollette, guardando però a un'opportunità strutturale offerta proprio dal disordine del momento. Lo è stata il Covid, può esserlo fare a meno del gas russo. Così come la pandemia ha squadernato la fragilità del sistema sanitario, ma anche ribaltato il senso del lavoro in ufficio, attrezzarsi per non dipendere dalla Russia può spingere verso una politica energetica più autonoma. E per questo Meloni insiste anche sulle rinnovabili, che sono nel dna del Paese del sole e del vento, ma che al netto dell'accelerazione dell'ultimo anno sono sempre state ingarbugliate in vincoli e mancate autorizzazioni.
Aumentare la produzione di gas in casa è il passo in più. Si può fare, eccome se si può. Secondo una stima fatta da Assorisorse, le riserve disponibili di gas naturale ammontano a oltre 110 miliardi di metri cubi, a cui vanno aggiunti i volumi già scoperti nel medio e nell'Alto Adriatico e per questo una stima complessiva fa riferimento a circa 200 miliardi di metri cubi. La riserva di gas naturale più grande si trova proprio nell'Alto Adriatico: circa 40 miliardi di metri cubi - stima Nomisma Energia - si trovano, sott'acqua, a circa 40 chilometri al largo di Venezia. Solo che questa sfida, come si diceva, è stata sempre respinta dalla politica. E il primo a farlo, nel 2002, fu Silvio Berlusconi, che decise il blocco totale dell'Alto Adriatico. Lo stesso Berlusconi che oggi, in una nota diffusa dopo l'intervento della premier, chiede di riprendere "una politica energetica non più condizionata dal partito dei no e dell'ambientalismo ideologico".
La seconda esigenza che spinge Meloni a tentare la via nazionale è l'assenza di una strategia europea. Le divisioni sul tetto al prezzo del gas e la lentezza sull'idea di un nuovo Recovery hanno aperto la strada all'iniziativa nazionale. L'ha praticata la Germania con un maxi piano da 200 miliardi, l'ha fatto Macron in Francia con un tetto alle bollette, ancora la Spagna con un cap nazionale. L'ha fatto anche la Gran Bretagna, pagando uno scotto enorme che ha costretto Liz Truss a uscire di scena prima che i mercati dessero il colpo definitivo alle finanze inglesi. E proprio lo spazio di spesa esiguo non permette a Meloni di addentrarsi in iniziative nostrane da finanziare a debito. Alzare l'asticella della produzione nazionale, invece, è un'operazione a costi limitati, non azzerati perché comunque gli operatori devono essere incentivati a trivellare. Estrarre gas è un business, ma è anche un affare che deve risultare conveniente rispetto ad altre dimensioni, come vendere il gas che si compra all'estero. Si potrebbe definire un'operazione patriottica, fatta con i gioielli di casa propria, cioè il mare Adriatico ricco di idrocarburi, e nazionale lo è questa mossa, nel senso tecnico della parola, se il nuovo gas alla fine venisse girato a prezzo più conveniente alle famiglie e alle imprese.
Il senso politico delle nuove trivelle è nell'effetto ultimo, cioè ridurre il costo delle bollette, perché non basta staccarsi dal gas russo e scegliere altri fornitori. L'Algeria, come il Qatar invece che gli Stati Uniti, rispondono a compagnie nazionali e non che fanno business anche, se non soprattutto, quando l'acquirente è a corto di metano. Mario Draghi ci ha provato, non spingendosi fino all'autorizzazione di nuove operazioni, ma comunque spingendo per l'aumento della produzione nei siti dove è già consentito. Il piano non ha fatto in tempo a partire, a Meloni non basta fotocopiarlo se, come dice, davvero vuole fare della crisi un'opportunità. Solo che il titolo va tradotto in una scelta. E le scelte richiedono anche coerenza. Non una parola pronunciata in aula sui rigassificatori, infrastrutture strategiche per la sicurezza energetica nazionale. E neppure una parola contro il ricorso al Tar del sindaco di Piombino, in quota Fratelli d'Italia, nel giorno in cui il commissario all'opera ha dato il via libera all'arrivo della nave. Anche qui serviva un po' di coraggio. Il rischio è quello di spingere da una parte e frenare dall'altra. La tara dice che si resta fermi. Altro che trivelle.