di Bobo Craxi
È una vittoria dolente quella di Ignacio da Silva, Lula. Non tanto per il risultato che lo ha visto prevalere sul fil di lana elettorale quanto per la responsabilità che ha dovuto assumere per piegare una parte politica che aveva condotto il paese verso una china assai pericolosa.
E non si è trattato solo di un declino di carattere economico figlio di scelte sbagliate e di una congiuntura sfavorevole, quanto di un insieme di elementi negativi che hanno attraversato la società brasiliana fino a determinare una spaccatura netta che le urne hanno fotografato vistosamente.
Bolsonaro e il populismo sono stati sconfitti ma il sentimento populista, nazionalista, reazionario e revanscista è l'altra faccia di una medaglia di cui Lula non ha potuto non tenere conto nel lungo discorso tenuto in un albergo di San Paolo dinanzi ai suoi sostenitori dopo l'annuncio della vittoria. Non è stato un messaggio di circostanza, ma un vero e proprio pronunciamento sulla necessità di una riconciliazione nazionale, per la cessazione repentina di una spaccatura che ha condotto il paese quasi sull'orlo di un conflitto civile strisciante.
Per questa ragione il tono di Lula si è fatto più preoccupato in una notte di vittoria e di rivincita personale. Ha ringraziato Dio per l'opportunità di aver vissuto queste sette vite politiche, una parabola personale originale la sua, dalla trincea del Sindacato alla presidenza della Repubblica passando dalle patrie galere prima di ritornare nuovamente nel palazzo.
Eppure questo uomo politico sudamericano predestinato sa di dover governare una società complessa piena di contraddizioni, immensamente ricca ma altrettanto immensamente diseguale. Di essere a capo di una nazione potenzialmente guida del continente sudamericano e una delle Nazioni più rispettate e conosciute al Mondo che pure ha dovuto conoscere il suo ridimensionamento e che con la gestione di Bolsonaro è assurta nell'immaginario collettivo internazionale come una società guidata da istinti retrogradi avendo fatto passi all'indietro nel riconoscimento di diritti civili e democratici, nella lotta contro i cambiamenti climatici e lo sfruttamento irresponsabile delle risorse ambientali anziché della sua tutela, nell'abbandono della lotta contro la povertà crescente e contro la discriminazione razziale fino alla spaventosa sconfitta nella gestione del Covid, seicentomila morti, che pesano sulla sua coscienza.
Lula si offre, pur essendo una figura divisiva e controversa nel paese a causa delle diffidenze di cui è circondato ancora il suo partito, come un federatore democratico ed al tempo stesso come il solo uomo politico in grado di tenere testa all'ondata populista che è in atto nel suo paese.
Avrà tempo sino a gennaio per costruire le assi portanti del governo; non sarà più una compagine a sola trazione PT ma verranno coinvolti i partiti e le personalità che lo hanno sorretto in questa avventura politica; dal vice presidente Alckmin all'altra leader della sinistra ma non petista Marina Silva, nonché esponenti del partito centrista di Gomez. Era il solo che poteva sconfiggere Bolsonaro, lo ha fatto ma di misura, questo rende assai delicato e difficile il suo compito; per questo "ricostruire il Brasile" significa soprattutto far scomparire al più presto il clima di intolleranza che si è venuto a generare in questi anni.
Non lo aiuteranno l'apparato dello Stato, molti grandi gruppi economici e una parte larga del popolo che ha sviluppato un ardore messianico verso questa forma di nazionalismo religioso che la destra in Brasile come in molte parti del mondo offre come opportunità e speranza. Dovrà essere un altro Lula a sconfiggere queste resistenze e portare a termine il compito che il destino gli assegnò: quello di sconfiggere la fame, come ha ripetuto nella notte di San Paolo.
Chico Buarque, una delle voci più autorevoli della cultura brasiliana, si augurava in una grande manifestazione a Belo Horizonte parafrasando una sua canzone che il peggio passasse: "Vai passar". È uscito sconfitto Bolsonaro, ma questo neo nazionalismo aggressivo mascherato di sovranismo nazionale non è morto con lui.