di Alessandro De Angelis
Prendi una donna, giovane, quarantenne, spigliata in pubblico, nuova per definizione, anche se è stata uno dei volti dell'ultima, disastrosa, campagna elettorale del Pd, molto arcobaleno, progressista, ecologista, femminista al punto che "ama una donna", piace anche a Romano Prodi, più Ztl che periferie, l'opposto dell'underdog, slogan facili da talk perché "bisogna essere inclusivi" (come?), "ricongiungersi col fuori" (quale?), outfit volutamente trasandato, più Zan che Marx. La candidi al congresso del Pd, dove si iscrive praticamente da aspirante segretario (con annessa trattativa sullo statuto) però, ci mancherebbe, "è un percorso collettivo". Ed è fatta: come essere contrari a un percorso così perfetto che consente di dire "è cambiato tutto" senza cambiare nulla, fare i conti con la sconfitta, crocifiggere i responsabili, cospargere di napalm che correnti, in definitiva perdurare col meccanismo fin qui fatale?
La prova: il sostegno, molto attivo a Elly Schlein di quella vecchia volpe di Dario Franceschini, l'uomo che sussurra ai segretari (e poi li molla), risultando determinante nella scelta dei successivi: numero due di Walter Veltroni sopravvissuto a Veltroni, capogruppo di Pierluigi Bersani sopravvissuto a Bersani, kingmaker del governo Letta prima di diventare il kingmaker di Matteo Renzi e, dopo, di Paolo Gentiloni, sempre al governo quando il Pd è stato al governo pur perdendo le elezioni, governi Conte e Draghi compresi. Immenso professionista della politica come equilibrio, a prescindere dal rapporto con la realtà, il principe dei Gattopardi democratici, rivitalizzato dal gattopardismo collettivo di una discussione finta: le non dimissioni del segretario, l'assenza di pathos, l'autoassoluzione collettiva dal segretario giù per li rami, imperturbabilità a quel che accade in Italia e nel mondo. "Rigenerazione", "ripartenza", "ricostruzione", "il problema non è il segretario" (e chi lo dice si candida), "identità" (non avendola): è sempre la solita solfa di parole vuote per perpetuare l'andazzo dei soliti noti, buoni per aggiornare il gioco delle parti in ogni stagione.
Bene, Schlein è in campo, e nei prossimi giorni lo farà capire ancora meglio, ed è una candidatura che dà fastidio alla sinistra. Piaciucchia a Peppe Provenzano, non piace per niente a Andrea Orlando che voleva una Epiney e si ritrova con Goffredo Bettini e, dunque, riflette sul da farsi, troppo rozza per Gianni Cuperlo che spera ancora in un congresso con tempi meno brevi. È gente che, al di là degli esiti, almeno in linea teorica ha conosciuto la politica non gruppettara, i problemi di Cipputi, i sacri testi e i dirigenti di una volta. Però, vediamo come andrà a finire, siccome vale anche da quelle parti il primato della logica di corrente, al dunque bisognerà schierarsi e da quelle parti, da sempre, vale al noto principio dei fratelli coltelli in base al quale è meglio usare uno (una) che viene da fuori rispetto a un parente stretto.
Vabbè, sabato all'assemblea del Pd si dovrebbero capire i tempi del congresso, e la discussione - sentite che roba - è questa: l'idea di Enrico Letta, come noto, era marzo, però per consentire una modifica dello statuto che consenta a Schlein, non iscritta, di candidarsi, qualcosa dovrà dare agli altri che vogliono gennaio. Si finirà presumibilmente con la gazebata a febbraio. E, finalmente, fissata la data magari già domenica, finalmente, ufficializzerà la candidatura Stefano Bonaccini il presidente della Regione di cui Schlein è vice, il candidato più temuto dai capibastone romani. E, direbbe Peppino, "ho detto tutto": presidente e vice candidati come segretari dello stesso partito, e guai se qualche spiritoso fa la battuta di mettere il tortellino nel simbolo.
E Dario Nardella? Ragazzo di solida scuola, per nulla avventurista, ci sta pensando pure lui. Franceschini, sempre lui, lo vorrebbe vice di Schlein, ma è davvero osé, perché uno così, del ticket non può essere secondo. Però, pur non avendo differenze di linea con Bonaccini - riformismo, solida cultura di governo, capacità amministrative - con Bonaccini non si è ancora messo d'accordo. E non ci si è messo d'accordo nemmeno Matteo Ricci, altro sindaco (di Pesaro) che gira l'Italia "da candidato". Perché - è il motivo per cui proliferano candidati, non dimenticate Paola De Micheli, la Kamala bianca - il meccanismo congressuale favorisce l'autoriproduzione del meccanismo (correntizio): contarsi, per contare. Ci si candida nella fase del congresso in cui votano gli iscritti, poi si fanno gli accordi con l'uno o l'altro che arrivano alle primarie. E infatti c'è anche chi, come Francesco Boccia, coltiva la luciferina idea di una candidatura di Vincenzo De Luca, avendo già dato Michele Emiliano, per un correntone del Sud dall'alto potere negoziale.
Di costituente c'è poco, di ri-costituente pure, e del resto mai si è vista una costituente con il segretario uscente. Di rottura ancora meno, ce ne fosse uno che non accetta, nell'imperturbabilità di quel che accade attorno, la finzione del meccanismo, sanamente incazzato con chi ha estinto la sinistra, pronto a giocarsi la cadrega in nome di un progetto, che dice qualcosa al popolo perduto. E, poiché non è un più un partito, ma una confederazione di capetti e correnti, c'è il rischio che, alla fine di questo congresso, non stia neanche più assieme. Perché non è affatto detto che alla fine se vince Bonaccini la sinistra resti dentro e non vada con Giuseppe Conte, e se vince Schlein tutta l'ala riformista resti dentro e non vada con Matteo Renzi e Carlo Calenda. E ci manca solo che salti anche l'Emilia Romagna.