di FABIO PORTA
Il concetto di cittadinanza ha radici profonde e antiche. Nel diritto romano, lo status civitatis distingueva il cittadino romano (civis romanus) dal non cittadino e, unito agli altri due status - lo status libertatis e lo status familiae era condizione necessaria per disporre della capacità giuridica. Nei secoli più recenti questo concetto si è evoluto, e spesso al di là dei semplici confini geografici delle nazioni, basti pensare ai Paesi del Commonwealth britannico o semplicemente alla “cittadinanza europea” che ci accomuna ai 27 Paesi dell’UE.
Ad ogni legislatura il Parlamento torna ad occuparsi del tema, con la giusta preoccupazione di adeguare questo diritto fondamentale alle sopravvenute esigenze di una società multietnica e moderna ma anche con qualche incomprensibile tentazione volta a restringere i confini della comunità di uomini e donne che vivono e amano il nostro Paese. Quello che più colpisce è l’anacronistica convinzione che siano soltanto i limiti o le barriere a definire i contorni di un principio che nella società contemporanea ci appare invece molto più articolato e complesso.
Provo a spiegarmi. Così come il nascere in un determinato luogo (‘ius soli’) non definisce automaticamente l’appartenenza ad una determinata comunità (di valori oltre che di persone), allo stesso modo sarebbe improprio definire un cittadino di un determinato Stato in base alla percentuale di sangue (o al numero di generazioni) che lo rende italiano, inglese, argentino o brasiliano. Nella società globale, peraltro, si tende sempre più a parlare di cittadinanza ibrida (basti pensare al concetto di “italicità” contenuto nel saggio “Svegliamoci italici” di Piero Bassetti) o addirittura “interiore” (di cittadinanza interiore parlava il bellissimo libro di qualche anno fa di Bruna Peyrot).
Se siamo allora d’accordo sul fatto che non è possibile imbrigliare la cittadinanza dentro le quattro pareti di una definizione giuridica, al tempo stesso non possiamo non concordare sul fatto che determinate regole siano necessarie per rendere ordinata la convivenza civile. Da qui la giusta e per certi versi opportuna discussione sullo ‘ius culturae’, volta all’inclusione nella società italiana dei giovani stranieri che già frequentano le nostre scuole. Da qui anche il dibattito su come rendere più adeguata ai tempi la nostra legislazione sullo ‘ius sanguinis’, non necessariamente vincolando lo status di cittadino al limite generazionale ma rendendolo più aderente ad una auspicabile condivisione di valori sociali e culturali.
Fa da sfondo a questa discussione la recessione demografica che da anni attanaglia il nostro Paese come un cappio sempre più stretto e che in prospettiva condannerebbe la popolazione italiana alla sua progressiva sparizione. È paradossale che certi nostalgici cultori della “preservazione etnica” non si rendano conto che, proprio al contrario di quanto sostengono, la salvezza della nostra (presunta) “etnia” risieda semmai nell’apertura e nella contaminazione, ossia nella progressiva e rapida inclusione nel tessuto sociale del Paese delle giovani generazioni di stranieri arrivate in Italia e nell’attrazione di nuove energie dall’estero, compreso ovviamente il grandissimo bacino dei giovani italo-discendenti.
È stata sempre questa, del resto, la vocazione del nostro popolo: dall’arrivo dei Fenici e degli Etruschi sulla penisola al grande impero romano, per continuare con le invasioni arabe e le successive dominazioni straniere che scelsero le terre dei nostri avi come suolo propizio per l’espansione delle loro civiltà. Da questa storia è nata la “civilizzazione italica”, una civiltà ibrida e per questo ricca, tutt’altro che chiusa e isolata rispetto al resto del mondo.
Se vogliamo allora aprire una vera discussione su questo tema, così come è stato detto in Parlamento il giorno della presentazione dell’intergruppo sulla cittadinanza, dobbiamo farlo “lontano dalle tifoserie degli ‘ius’ e vicini al cuore di migliaia di ‘nuovi italiani’ che guardano al nostro Paese con fiducia e speranza”; sarebbe miope, oltre che ingiusto, voltarsi dall’altra parte e non ricambiare con altrettanta sincera disponibilità questa bellissima apertura di credito nei nostri confronti.
Articolo pubblicato da « Comunità italiana » (Luglio, 2023)