di SILVIA DI PASQUALE
Un cane bruciato vivo dal padrone a Palermo. Un altro scuoiato e fatto a pezzi alla periferia di Roma. Un gatto annegato da una ragazzina in una fontana ad Alberobello, poi un altro micio ucciso a colpi di fucilate solo perché camminava sul cemento fresco. E per allargare la lista, è bene non dimenticare il cavallo Tornado, morto indirettamente per i botti di Capodanno.
La brutalità umana si declina in molti modi, uno di questi è il provare piacere nello sfogare i propri disagi su creature che, è bene sottolinearlo, spesso non possono difendersi. Una guerra impari, codarda da parte dell’uomo, che nudo e crudo, se si trovasse nella savana a tu per tu con un leone affamato, avrebbe un’aspettativa di vita pari allo 0,1 %.
Sappiamo bene che ogni giorno negli allevamenti gli animali muoiono, dunque è da ipocriti versare lacrime solo per una certa categoria di animalicidi. Tuttavia, ce lo consentano vegani e vegetariani per scelta etica, almeno nel primo caso una parvenza di scusa c’è: quella del nutrirsi di un prodotto che non tutti sono disposti ancora a sostituire con alternative vegetali o integratori.
Al contrario, per questi ultimi fatti di cronaca, non se la prenda la scrittrice Hannah Arendt, ci permettiamo di prendere in prestito il titolo del suo celebre libro: “La banalità del male“. Di questo si tratta. Quando poi gli atti sono compiuti dalle giovani generazioni, che postano via social per giunta le loro gesta antieroiche, insieme alle braccia cade la speranza di un mondo se non migliore, accettabile.