Io sono stato in quella miniera assassina, nelle viscere sconvolte di quella terra dimenticata non da Dio ma di certo dagli uomini. Io sono entrato centoundici anni fa con gli abusivi non segnati sui registri all’ingresso della grande, spaventosa miniera, con i minori che non dovevano entrare e che nessuno ha mai contato, inghiottiti per sempre dal lavoro nero e dal nulla. Ho respirato il gas velenoso e poi le esalazioni dei corpi decomposti di vittime che, nonostante la buona volontà e la piétas di alcuni, resteranno per sempre senza nome. Ho scritto centinaia, forse migliaia di righe per "La Gente d’Italia" su Monongah, un luogo che ancora oggi, se non è esattamente un "American nightmare", un incubo nascosto in una piega della West Virginia, è comunque l’esatto opposto dell’"American dream".
Tra le nove storie emblematiche di homeless, senzatetto americani, che Sharon Cohen ha scritto per l’agenzia di stampa statunitense Associated Press il 26 febbraio 2005, una sola è
ambientata in provincia e dice: "3:15 P.M.: WEST VIRGINIA. A light snow falls in the mining town of Monongah, W.Va., as nurse’s aide Harleigh Marsh heads home from his job at St. Barbara’s Memorial Nursing Home. Marsh lives at Scott Place, a shelter in nearby Fairmont. A former sailor, Marsh lives in a dimly lit 14-by-14 room. After leaving the military in 1979, Marsh tried college, but soon began traveling again, working as a drywall hanger and painter, renting rooms by the week, living from a suitcase. In Milwaukee, he met a woman and fell in love. They had a son. But she found someone else, leaving him heartbroken. Almost overnight, he was homeless. He ended up in Scott Place last year; the Veterans Administration provided help for his depression. Marsh loves his job but after $300 monthly child support payments, he’s left with just $140 a week not enough to visit his 13-year-old boy, William Ray. "It tears both of us apart," he says.
La lascio in inglese proprio per rispettarne l’asciutta durezza, a rischio di non farla capire
pienamente a tutti, la storia di questo ex-marinaio, questo reduce che sopravvive nel ricovero di Scott Place in disperazione, come l’ultimo degli extra-comunitari in Italia, senza poter neppure vedere il figlio di 13 anni. Ma che cosa è e che cosa ha Monongah? Perché mai ci si moriva in malo modo e ci si sopravvive ancora oggi in malo modo? Ricordo che visitandola nel 2003 e tentando di fare il mestiere di cronista, parlai con più di un cittadino. Disoccupazione, depressione economica, mancato sviluppo, isolamento furono gli unici argomenti di quelle conversazioni di persone gentili e rassegnate. Sembra che quel nome, Monongah, abbia origini indigene, un nome che per gli "indiani" della non lontana catena montuosa degli Appalaci, avesse a che fare con i lupi. Io sono nato, guarda caso, in un minuscolo villaggio campano, anzi sannita, che si chiama San Lupo. Forse anche per questo, mentre rispondo alla richiesta di scrivere ancora 30 righe, mi viene più da ululare che da scrivere. Affidare a un ululato tutta la disperazione di e per quei morti in miniera, di tutti i morti in qualsiasi miniera in ogni tempo e in ogni guerra ovunque, di tutte le vittime della violenza: da quella dei campi di sterminio organizzati a quella dei sopravvissuti ai campi di sterminio; da quella del terrorismo all’altra della cosiddetta guerra al terrorismo; da quella sui bambini e le donne all’altra che devasta di continuo senza scopi né obiettivi precisi la vita di persone semplici e inermi.
La violenza dei mezzi d’informazione, quella dei "crociati" per lo scontro di civiltà e l’altra delle morti bianche nei luoghi di lavoro. Un ululato di indignazione per un mondo che,
nonostante le molte e diverse Monongah di ogni tipo, sembra non aver imparato a vivere difendendo la vita e la dignità della persona. Nemmeno nel paese che più di ogni altro ha
tentato di porsi, almeno in alcuni momenti passati della sua storia, come faro di benessere, libertà e giustizia. Mentre nascondeva le sue Monongah. Un ululato per ricordare a tutti che continuando a produrre e nascondere Monongah su Monongah si finisce solo col produrre un mondo sempre più invivibile. Trasformando in "ultimi" anche quelli che fio a qualche anno fa non lo erano. Un ululato, in realtà, per la speranza di un mondo migliore. Senza miniera assassine di nessun genere.
Pietro Mariano Benni