di FABIO PORTA
Cento anni fa, il 10 giugno del 1924, la violenza fascista uccideva a Roma un uomo mite, un politico serio e competente, un socialista riformista che rischiò di mettere in crisi il regime fascista, prima ma anche dopo la sua morte cruenta.
Oggi, anche grazie alle celebrazioni del centesimo anniversario della sua morte e a diverse pubblicazioni pubblicate per l’occasione, a Giacomo Matteotti viene reso il giusto e doveroso omaggio delle istituzioni italiane; soprattutto viene data a questa figura centrale nella storia dell’Italia dall’unità ad oggi il risalto e l’evidenza storiografica che merita insieme al giusto riconoscimento per la sua breve ma dirompente vicenda politica.
Matteotti era un deputato metodico, che amava trascorrere ore nella biblioteca della Camera dei deputati; al tempo stesso un marito e padre affettuoso e dedicato.
I suoi discorsi alla Camera divennero emblematici, per la precisione delle argomentazioni ma anche per l’irritazione che causavano tra i sostenitori del fascismo e in maniera specifica allo stesso Mussolini.
Eletto nel 1919, il giovane deputato nato in un piccolo comune della provincia di Rovigo, Fratta Polesine, intervenne per ben centosei volte nell’aula di Montecitorio. Il suo discorso più noto, che per lo stesso Matteotti decretò la sua condanna a morte (“io il mio discorso l’ho fatto”, disse rivolto ai colleghi, “ora voi preparate il discorso funebre per me”), fu pronunciato il 30 maggio del 1924, dieci giorni prima della sua morte; il deputato socialista in quell’occasione, tra le urla e le minacce dei suoi avversari politici, denunciò apertamente e dettagliatamente le intimidazioni, le violenze e i brogli elettorali del governo di Mussolini.
Quelle stesse violenze e intimidazioni che qualche anno prima aveva descritto minuziosamente nel suo opuscolo intitolato “Un anno di dominazione fascista”, vera e propria spina nel fianco per i fascisti che in diverse occasioni minacciarono di morte il deputato veneto.
Un nuovo duro discorso era atteso alla Camera dei deputati nel corso della seduta dell’11 giugno 1924; Matteotti, che si era recato all’estero più volte per approfondire alcuni temi scottanti, avrebbe dovuto rivelare un grave caso di corruzione che coinvolgeva vari gerarchi fascisti e il duce in prima persona.
Si trattava della concessione per lo sfruttamento del sottosuolo italiano da parte di una grande compagnia petrolifera in cambio di ingenti tangenti a favore del partito fascista. Quel discorso non fu mai pronunciato; la mattina del 10 giugno, a pochi metri dalla sua abitazione vicino al lungotevere Arnaldo da Brescia una squadra di fascisti guidati da Amerigo Dumini costrinse Matteotti con la forza a entrare in una automobile dove venne picchiato e accoltellato fino alla morte.
Il cadavere venne ritrovato soltanto due mesi dopo, in una località di campagna non lontano da Roma, in una buca ricoperta da foglie e arbusti.
Nel discorso all’Assemblea costituente che scrisse la nuova Costituzione italiana dopo la caduta del fascismo e della monarchia, Piero Calamandrei designava a mito fondante del nuovo Stato democratico il culto dei Caduti per la libertà, spesso oscuri ma non per questo meno significativi: Matteotti apriva la scia nella quale seguivano grandi figure come Amendola, Gobetti, Don Minzoni, Gramsci e Rosselli. La loro morte sarebbe entrata a pieno titolo nel mito fondativo dell’Italia repubblicana.
In tutto il mondo, non soltanto in Italia e anche grazie ai tanti nostri emigrati in quei Paesi, il nome di Giacomo Matteotti continua ancora oggi a evocare sentimenti di libertà, democrazia e giustizia sociale.