Elogio, carme, epinicio, peana e suono di campane per questo pesce volante, segno zodiacale acquario, Valentino Rossi, oh Valentino che vinci di nuovo con l’impennata dell’allegria.
Elogio fervido, caldo e festoso per il fumetto vivente sui circuiti del mondo, gas, manetta, piegate, sobbalzi e schizzi di velocità, rettilinei di vertigine, curve d’arcobaleno, il ginocchio che sfiora l’asfalto sul filo dell’equilibrio di audacia, l’estrema sfida alla gravità, tutto coricato a destra, tutto coricato a sinistra, orli di pista, terra fuggente, manetta, gas, fuga per la tangente.
Valentino primula, girasole, asfodelo. Fiore che si apre all’uscita della curva, sboccia e si drizza, gas, manetta, visiera, Valentino che insegue, sorpassa, stringe, s’allarga. La carena imperiale, i forcelloni idraulici, il sellino slanciato, la cupoletta di guida, il mostro di 150 chili affilato nella galleria del vento e, sopra, il cavaliere allegro, il principino coi riccioli.
Cuore di ragazzo che pulsa e cilindri che vibrano, leggero cavaliere e destriero di lega leggera, forcelle e pensieri, gambe e chiglia di carbonio, benzina e coraggio.
Ricordo di un giorno fra le tigri della Malesia, il mondo di Emilio Salgari, nel caldo umido di settembre su quella lingua di terra asiatica che è la penisola di Malacca di fronte a Sumatra, tra l’Oceano Indiano e il Mar cinese, e le leggende dei pirati del Borneo. Valentino bel tigrotto di Mompracem col numero 46, un marchio depositato, e con la moto azzurro-verde, corazza di un guerriero sbarazzino.
Era la Malesia, tra riso e manioca, paese del caucciù, oltre Kuala Lampur e le sue due torri gigantesche, la pista di Sepang, un’autostrada di cinque chilometri e mezzo, da divorarla ventuno volte, cinque curve a sinistra, dieci curve a destra, e l’esotica tribuna ad ombrello, fantasia di un architetto tedesco e suggestione orientale. Vertigine d’asfalto, caleidoscopio di carene, gemiti di ammortizzatori, battaglia di pistoni, mambo di cilindri, follie di contagiri.
Il catalogo è questo del mondo di Valentino. Il sole di Spagna e la pioggia inglese di Donington, il cielo portoghese dell’Estoril e la novità assoluta dell’autodromo fantascientifico alla periferia di Shanghai, il vecchio asfalto francese di Le Mans, le colline toscane del Mugello, Assen dove si correva prima che Valentino nascesse.
E poi i rischi di Laguna Seca, nell’ovest americano. L’inospitale circuito tedesco sotto i Monti Metalliferi, a Chemnitz. E il posto della Repubblica ceca che sembra un brivido, Brno. Il circuito di Phillip Island tra le colline verdi d’Australia, Istanbul, Valencia, paella e ricordi d’Arabia.
Ventitré volte ha fatto il giro del mondo il ragazzo allegro e vincente, Valentino Rossi, un nome musicale e un cognome di velocità, un fuscello biondo, un giovane giunco, alto e sottile, che doma la furia di duecentotrenta cavalli sulla luccicante puledra dei 150 chili.
Elogio dell’acrobazia e del rigoroso senso geometrico di Valentino, la misura esatta del suo coraggio, il margine preciso della sua audacia, il filo sottile tra la piegata e la caduta disastrosa, tra il sorpasso e la giravolta dissennata della resa sulla sabbia, quel margine minimo di sicurezza e abilità in cui il ragazzo s’infila e va, padrone assoluto di forze centripete e centrifughe, padrone dei rettilinei vertiginosi e delle curve dell’equilibrio estremo.
Elogio del trapezista a motore, del ragazzo che si lancia senza rete e torna vittorioso. Elogio del rischio calcolato, del pericolo domato e dell’equilibrio assoluto di Valentino Rossi, il ragazzo compagno del vento, magro come un bagnino romagnolo, spudorato come un clown, Harry Potter con le ali di Mercurio e il volto di Apollo.
Elogio del figlio di papà Graziano, marchigiano eccentrico con le bretelle che viveva sulle moto e il giorno che fallì di poco la vittoria mondiale tornò al paese e portò a spasso una gallina e la chiamò Cristina. Un burlone con una treccia di capelli, papà Graziano, un uomo “col cuore più grande della paura” e la fantasia di un naif, il suo mitico casco aveva il disegno di un castello fiabesco, il mare e l’arcobaleno.
Elogio del figlio di mamma Stefania che a Valentino ha regalato il bel viso sorridente, i riccioli e, da geometra comunale, le ha trasmesso il senso geometrico delle linee e delle curve delle piste del mondo.
Elogio della culla e del rifugio di Valentino Rossi, il suo ombelico del mondo, Tavullia, tra Pesaro e Urbino, confini marchigiani ma allegria romagnola, con la pasticceria Yuri e il bar Sport, il monumento ai Caduti, la caserma dei carabinieri e la chiesa di don Cesare, una collina e quattromila abitanti, il luccichio del mare Adriatico a oriente e, a nord, lo sfolgorio di Gabicce, Cattolica, Riccione, l’ebbrezza della riviera, discoteche e ragazze, cabine di mare, alberghi, passeggio, confusione, donne e motori.
Tavullia dove il bambino Valentino Rossi ebbe una moto a rotelle a due anni e mezzo, e al tempo delle elementari sgusciava su una motocicletta immaginaria fra i tavolini e le sedie dei bar, emettendo i suoni delle derapate e delle staccate, e strimpellava una chitarra e, con le orecchie a sventola, scriveva sui quaderni di scuola a più riprese “sono bellissimo”, l’inizio di una determinazione assoluta e di uno spirito vincente.
Il motociclismo era leggenda di uomini neri e duri, sparvieri e pirati di fatica, pionieri del rischio, del coraggio e dell’incoscienza su asfalti rugosi e strade della morte. I centauri del tempo passato sembravano minatori, votati a un sacrificio massacrante e a vittorie drammatiche.
Nei tempi moderni è apparsa una farfalla e “The Express” ha scritto: “Valentino Rossi sembra una ragazza, guida come un veterano ed è diventato il principe dei clown”.
Tifoso sampdoriano all’origine, poi passato a tifare Inter incantato dal genio dell’uruguayano Recoba. Vale, da ragazzino, giocava centrocampista, ma gli piacevano lo sci e lo snowboard. Lettore dei fumetti di Dylan Dog, amante del rock duro italiano, Vasco Rossi in testa, e delle canzoni di Jovanotti. Attrice preferita Angelina Jolie “per quelle sue labbrone”.
Parla a mitraglietta, irresistibile in ogni occasione, accento romagnolo, e si definisce “molto tranquillo, abbastanza inaffidabile, però sincero, simpatico, ecco, proprio un ragazzo normale”.
Ha cinque soprannomi accertati: The Doctor, Robin Hood, il Folletto, Peter Pan che glielo ha appioppato Aldo Costa, il chirurgo della clinica mobile che rimette in sesto i corpi disastrati dei piloti d’auto e di moto, e Rossifumo perché il suo primo idolo è stato il giapponese Abe Norifumi, cavaliere delle 500.
Sul casco, disegnato da Aldo Drudi, ho visto una volta il sole e la luna, “però incazzati perché i caschi delle moto devono essere grintosi”, nel sottocasco la scritta “WFL” che vuol dire proprio viva la f…. e il profilo di un profilattico “perché noi ragazzi pensiamo sempre a quella cosa lì”.
Ora ha un casco più colorato. Un ragazzo così che cosa fa alle ragazze? Lui dice: “Le donne sono come i giornalisti, se vinci arrivano”.
L’amicizia è il suo massimo valore. Gli amici sono quelli di Tavullia, quelli coi quali da ragazzo tirava a fare tardi nelle discoteche di Cattolica, il barista, il falegname, i compagni di scuola.
Gli amici sono Rossano Brazzi, il meccanico che l’ha cresciuto, quello che dice: “Vale ha il cervello del vincente, ti travolge”; Carlo Pernat, genovese, direttore sportivo dell’Aprilia che lo fece esordire nel motomondiale; Cesarino Salucci, presidente del Fan Club ufficiale, e soprattutto suo figlio Alessio, il popolarissimo Uccio, l’amico più fedele che guida il camper giallo di dodici metri, letto a due piazze, salotto con due divani, bagno, cucina e parabola, la casa viaggiante di Valentino sui circuiti europei; Flavio del Fan Club con cui condivide le esilaranti trovate dei dopo-corsa; Gibo Badioli, eternamente in jeans, piazzista di mobili, enologo, esperto d’arte, che gestisce la sua immagine e i contratti; e naturalmente don Cesare, il parroco di Tavullia, che suona le campane quando Valentino vince, e le ha suonate tanto che il campanile si è lesionato.
Un seguito di sedici persone, un cuoco, quattro meccanici, due ingegneri, gli addetti all’informazione, il monzese Davide Brivio ex programmatore di computer che è il suo team manager e l’ha portato alla Yamaha, Carlo Fiorani cresciuto in Ferrari che bada alla organizzazione, Carlo Florenzano che recluta le ragazze del paddock con gli ombrelli, e Jeremy Burgess il capomeccanico australiano che per lui ha abbandonato la Honda.
Capelli tricolori a Imola 1998, pelato come il meccanico Brazzi nel 2000 per festeggiare il titolo mondiale della 250, capelli corti a Jerez 2001 per i ventidue anni, capelli lunghi e basettoni come Jovanotti nel 2002.
Occhiali scuri e cappello nero come i Blues Brothers. Scarpe da passeggio fluorescenti. Al Mugello sulla moto con una bambola gonfiabile che aveva le fattezze di Claudia Schiffer. Quando divenne campione del mondo la prima volta, issò sulla moto un gigantesco “1” giallo.
A Donington, travestito da Robin Hood perché la foresta di Sherwood era vicina. A Barcellona, nel 1998, mostrò un pollo per ricordare il suo primo sponsor, la Polleria Osvaldo di Tavullia: a 19 anni da Osvaldo Fratesi non aveva accettato soldi, ma i prodotti del suo negozio.
A Rio de Janeiro ha sfoderato un angelo di cartapesta, il suo angelo custode, che poi è Uccio, l’amico fedelissimo, che fece il giro d’onore con Vale e l’angelo di cartapesta. A Barcellona, vestito da dottore, The Doctor, camice bianco e uno stetoscopio, più una chiave inglese, per auscultare la Yamaha e poi disse: “L’operazione è riuscita, la moto gode ottima salute”.
Ha detto: “Girando il mondo si invecchia, ma si invecchia con più divertimento”. Lunga vita al ragazzo sorridente, a Valentino settebellezze, al più sincero e spontaneo di tutti, al divertente boy-biker di Tavullia che nelle moto ha portato una ventata hippie, bambole gonfiabili, angeli custodi, l’accento romagnolo, la grazia e l’audacia, il filo magico e invisibile su cui corre e non si ferma mai.
di Mimmo Carratelli