di BRUNO GRANATA

Con circolare numero   del 43347 03/10/2024 – UPG, il Ministero dell'Interno, sulla scorta di recenti sentenze di alcuni Tribunali e della Corte di Cassazione, ha voluto introdurre un'interpretazione estremamente restrittiva della normativa sulla cittadinanza, che rischia di provocare più danni che benefici, oltre ad apparire in qualche modo “punitiva” nei confronti dei discendenti di italiani sparsi per il mondo.

Prima di entrare nel merito della questione, con un’analisi del contenuto della circolare, non si può fare a meno di osservare - come premessa di carattere generale - che, in un sistema giuridico basato sul diritto positivo come quello italiano, la magistratura non ha il potere di modificare la legge in senso formale ma solo quello di suggerire linee interpretative.

A maggior ragione, una circolare, pur essendo uno strumento amministrativo importante per chiarire e fornire indicazioni sull'applicazione delle leggi, non ha certamente il potere di modificare una legge, risultando gerarchicamente inferiore perfino ad una norma regolamentare: le leggi sono adottate dal Parlamento, e solo il Parlamento ha l'autorità per modificarle o abrogarle.

Da molti anni, le norme che regolano la materia della cittadinanza sono state periodicamente oggetto di qualche sentenza tendente a restringere il diritto dei cittadini italiani “iure sanguinis” nati all’estero, sentenze spesso fuorvianti e discriminatorie, che hanno spesso creato situazioni di incertezza interpretativa, generando numerosi contenziosi.

In tale contesto, l'applicazione della legge da parte della Pubblica Amministrazione, può diventare complessa ed inutilmente contraddittoria.

Al riguardo, è importante considerare alcuni aspetti:

1. Principio di legalità e gerarchia delle fonti: Le amministrazioni pubbliche devono rispettare il principio di legalità e applicare le norme in conformità con le interpretazioni giuridiche prevalenti. In assenza di una chiara indicazione su quale interpretazione debba prevalere, le amministrazioni possono trovarsi in una posizione difficile.

2. Interpretazione prevalente: In genere, le amministrazioni tendono ad adottare l'interpretazione che ritengono più conforme alla prassi consolidata o a quella che ha ottenuto una maggiore approvazione da parte della giurisprudenza. Se una delle interpretazioni risulta più frequentemente seguita, è probabile che venga adottata.

3. Riferimento a orientamenti giurisprudenziali: Le amministrazioni possono fare riferimento a orientamenti giurisprudenziali che, sebbene non vincolanti (come le sentenze della Cassazione), possono fornire indicazioni utili per prendere decisioni coerenti e giuridicamente solide.

4. Rischio di contenzioso: Qualsiasi decisione presa in un contesto di incertezza interpretativa potrebbe essere soggetta a contestazione. Le Amministrazioni dovrebbero valutare con estrema attenzione e se necessario fornire motivazioni chiare per la scelta dell'interpretazione adottata perchè, sebbene sia lecito far prevalere un'interpretazione piuttosto che un'altra, il principio di buon andamento dell’azione amministrativa impone di procedere con cautela e considerare i principi giuridici, le prassi consolidate e i potenziali rischi di contenzioso.

Una circolare del Ministero dell'Interno, pur essendo uno strumento amministrativo importante per chiarire e fornire indicazioni sull'applicazione delle leggi, non ha, come si è già detto, il potere di modificare una legge in senso formale, nè di stravolgerne l’applicazione.

Nel caso di specie, si ha l’impressione che si stia cercando di intervenire surrettiziamente, con una interpretazione amministrativa che, sulla scorta di una recente sentenza della Corte di Cassazione, infrange un assetto giuridico regolato da una legge sulla cui interpretazione esiste una consolidata, univoca e quasi unanime tendenza da oltre un secolo.

Questo nuovo orientamento (che in realtà nuovo non è) tenta,come è accaduto altre volte in passato, di porre degli ostacoli di ordine amministrativo e procedurale all’applicazione di norme che per loro natura sono estremamente chiare e indiscutibili.

L’orientamento infatti non tiene conto, o meglio interpreta in modo singolare, una disposizione contenuta nella legge 13 giugno 1912 n. 555, ovverossia dall’articolo 7, a mente del quale “il cittadino italiano nato e residente in uno Stato estero dal quale sia ritenuto proprio cittadino per nascita, conserva la cittadinanza italiana ma divenuto maggiorenne e emancipato può rinunciarvi"

Con tale norma il legislatore dell’epoca volle preoccuparsi delle sorti di coloro che nascevano da genitori italiani in un paese che applicava lo ius soli, trovandosi sin dalla nascita in una situazione di sostanziale bipolidia.

Come osservato anche dalla migliore dottrina (cfr. R. Clerici “Problemi di cittadinanza nella giurisprudenza italiana” in Rivista di Diritto Internazionale privato, 1972) il suddetto articolo 7 si riferisce ad individui muniti di doppia cittadinanza sin dalla nascita e, come confermato puntualmente durante un secolo anchedalla giurisprudenza, qualora il discendente fosse già nato nel paese di emigrazione, non può trovare applicazione l’articolo 12 della medesima legge, in quanto quest’ultima disposizione era subordinata alla circostanza che il discendente “acquistasse“, per effetto della naturalizzazione del genitore, la di lui nuova cittadinanza.

E’ infatti noto ed incontrovertibile che, nel caso del discendentinati nei paesi che applicano lo ius soli, non vi era alcun acquisto di cittadinanza a seguito della naturalizzazione del genitore, per il semplice fatto che questa cittadinanza era posseduta fin dalla nascita e non poteva essere acquisita una seconda volta per naturalizzazione.

Peraltro, il secondo comma dell’articolo 12 rispondeva chiaramente alla necessità di evitare che il minore non fornito di altro status civitatis, potesse venirsi a trovare in una situazione di apolidia in conseguenza della perdita cittadinanza italiana da parte del padre.

Al riguardo, bisogna dar conto anche di un altro orientamento (questa volta di origine amministrativa e più precisamente di qualche autorità consolare) che, facendo leva sulla circostanza che la norma di cui all’articolo 7 della citata legge 555/1912 non fossepresente nel codice civile del 1865, considerava che l’acquisto della cittadinanza locale iure soli, fin dalla nascita, avrebbe comportato la perdita dello status di cittadino italiano trasmesso dal genitore italiano.

Giova ricordare a tale proposito che anche il codice civile del 1865 prevedeva la perdita della cittadinanza italiana unicamente da parte di colui che avesse ottenuto volontariamente, per naturalizzazione, la cittadinanza di un paese estero. Tale norma faceva quindi riferimento in modo molto preciso all’elemento volontaristico che, nel caso dell’attribuzione della cittadinanza iure soli evidentemente manca.

L’elemento volontaristico ha sempre caratterizzato le variazioni di status e si può addirittura citare un antichissimo precedente della corte di Cassazione di Napoli nella sentenza resa all’esito dell’udienza del 5 ottobre 1907, in un caso riguardante la cosiddetta "grande naturalizzazione" prevista dal decreto brasiliano del 15 dicembre 1889. La corte sottolineò all'epoca che né il meccanismo di naturalizzazione ope legis, previsto dall’ordinamento brasiliano, né la stessa iscrizione del cittadino italiano nelle liste elettorali locali, potevano comportare la perdita del nostro status civitatis, posto che ai sensi dell’articolo 11 del codice civile del 1865 tale effetto era riservato solo a chi avesse ottenuto la cittadinanza in un paese estero con un atto volontario “chiesto o desiderato".

Il concetto della "domanda" di naturalizzazione risulta fondamentale ora come allora: mancando tale domanda non si può presumere la rinunzia alla propria nazionalità italiana e quindi la perdita del nostro status civitatis.

Anche in questo caso si è trattato quindi dell’ennesimo tentativo di disconoscere una situazione giuridica che, al netto di qualsiasi discussione, è stata frutto di precise scelte legislative adottate più di cent’anni or sono e mai modificate neanche dalla legge attualmente vigente (legge 5 febbraio 1992 n. 91 che all’art.20, recita come segue: “1. Salvo che sia espressamente previsto, lo stato di cittadinanza acquisito anteriormente alla presente legge non si modifica se non per fatti posteriori alla data di entrata in vigore della stessa.”

L’eventualità di una possibile naturalizzazione, si riferisce ovviamente al primo dante causa (che normalmente coincide con l’avo italiano migrante) mentre il secondo dante causa, già nato nel paese di emigrazione, era considerato proprio cittadino da quest’ultimo paese “iure soli”.

Ne consegue che il nato nel paese estero e gli altri ascendenti dell’interessato non potevano giocoforza acquisire volontariamente una cittadinanza che già possedevano sin dalla nascita.

Anche per il diritto internazionale, del resto, l’applicazione cumulativa di criteri di collegamento diversi ma tra essi complementari e non confliggenti, determina una situazione di bipolidia ab origine, che esclude la perdita della cittadinanza per mero possesso di una cittadinanza straniera senza alcuna dichiarazione di volontà.

Per concludere non possiamo quindi che ribadire, oltre all’inopportunità, la sostanziale illegittimità della circolare del Ministero dell’Interno emanata il 3 ottobre scorso, che non può assolutamente modificare una normativa che continua ad essere, in tali fattispecie, regolata dalla vecchia legge 555/1912.