Se c'è una cosa che mi infastidisce, questa è l'atteggiamento farisaico, penetrato così a fondo negli animi di molti, al punto di diventare una connotazione precisa dei pensieri. Da quando sono cadute le Torri Gemelle e il nostro Paese ha deciso di impegnare un contingente militare nei territori di provenienza dei terroristi islamici, molti soldati italiani hanno perso la vita a causa di attentati, aggressioni armate, agguati.
Erano militari: sono caduti in adempimento del dovere, per difendere la vita e la libertà di persone inermi. Tra loro, ci sarebbe potuto essere un nostro congiunto, un amico, una persona conosciuta. La sua morte, per ciascuno di noi, sarebbe potuta essere una tragedia, fonte di dolore incancellabile. In ogni caso, erano soldati italiani e questo basta a fare di loro dei fratelli. I soldati muoiono. Questo è il punto. I militari fanno un mestiere pericoloso, nel quale l'eventualità della morte non è un'ipotesi remota, ma una possibilità concreta, quando non una vera e propria probabilità.
Indossare la divisa della Folgore, della Taurinense o di uno dei Reparti distaccati in territorio di guerra non è come svolgere le mansioni di addetto al catasto: comporta dei rischi molto seri, noti a tutti (a chi imbraccia il fucile e a chi lo aspetta a casa) fin dall'inizio. L'Iraq o l'Afghanistan non sono luoghi di villeggiatura, ma teatri di azioni belliche nelle quali la gente muore. In quei posti, c'è gente che spara. Insomma: la morte di un militare non è comparabile a quella di un operaio che cade dalle impalcature. Io penso che sarebbe ora di cominciare a dirle queste cose, dismettendo i panni di quel fariseismo che tanto ci piace quando c'è occasione di lamentarsi.
Comprendo – anche se non condivido – l'atteggiamento di chi vorrebbe un completo disimpegno delle nostre Forze armate e considera un grave errore l'invio del nostro Esercito in aree nelle quali le regole di ingaggio non sono scritte su un manuale, ma sui colpi di mortaio. Comprendo questi, ma non quelli che rifiutano l'idea della morte. In guerra – che sia operazione di peacekeeping o no – si muore e ci si va sapendo di poter morire. Dunque, onore ai nostri caduti, lacrime per le loro vite spezzate e per il dolore dei loro congiunti. Ma sia chiaro che parliamo di soldati, di persone coraggiose disposte a sacrificarsi per noi.
MAURO ANETRINI