Di tutte le storie che sono emerse negli anni - tragiche, bellissime, alcune che fanno vergognare solo a sentirle - sulla caccia agli ebrei nella Roma occupata dai nazisti, una è finora sfuggita pervicacemente al racconto. Eppure è sempre uguale alle altre, ma è anche molto diversa. Parla infatti di famiglie di ebrei in soffitta, ben nascoste, e di aguzzini in divisa nera e teschio sul collarino. La cosa che la rende diversa è che per mesi le une e gli altri hanno vissuto, notte e giorno, sotto lo stesso tetto: respirando la stessa aria, sentendo gli stessi rumori dalla stessa strada e gli stessi odori della stessa cucina. La strada era quella che portava al nord, al Brennero. I nazisti, preso il controllo di Roma dopo l'8 Settembre, avevano individuato in un complesso a poca distanza dalla Salaria il luogo ideale per installare un ospedale per i loro corpi scelti. Un complesso fatto di mattoni, costruito per ospitare un convento di suore. Da una comunità di francescane (Francescane della Misericordia, per l'esattezza) era infatti abitato.
Attorno stava sorgendo un quartiere: media borghesia da mille lire al mese. Tre chilometri più giù l'Aeroporto dell'Urbe, all'epoca destinato a grande sviluppo. Dall'altra parte, a un quarto d'ora di camionetta, la Stazione Tiburtina, da cui partivano gli ebrei diretti ad Auschwitz. Tutto sotto controllo. Quasi tutto, perché le Ss non sapevano e non seppero mai che in soffitta prima di loro erano arrivati i diseredati della Terra, nella forma di alcune famiglie di ebrei. I nazisti al piano rialzato, le suore (quasi tutte di madrelingua tedesca, si noti: l'ordine della Misericordia è lussemburghese) al primo, a far da cuscinetto. I fuggiaschi sotto il tetto. Così, mentre i segugi del Reich si davano da fare agli ordini di Kappler e Priebke per riempire i carri piombati, una decina di bambini volteggiavano sulle loro teste, giocando con i bossoli delle loro cartucce neanche fossero prilli.
La storia dell'ospedale delle Ss di Via Poggio Moiano, a Roma, è molto incompleta. L'unica fonte che rimane è un diario, persino troppo sintetico, di Madre Ignazia, la suora - tedesca anche lei - che era la superiora del convento e personalmente bloccò un paio di tentativi dell'Ordine Nero di salire ai piani superiori. Lo fece parandosi sulle scale e scandendo ordini ai nazisti nella loro lingua natia: il tono e la circostanza - più magari una mano della Divina Provvidenza - fecero il miracolo. Ottenne più l'anziana Ignazia, che non possiamo che immaginarci imponente e un po' arpia, che la successiva estensione al convento di una sorta di extraterritorialità concessa dal Vaticano dopo la razzia del ghetto, il 16 ottobre 1943. Ad ascoltare la storia non può che venire in mente come, contemporaneamente, nell'ospedale Fatebenefratelli all'Isola Tiberina un gruppo di medici di grande dottrina e non poca ironia teorizzavano la Sindrome di K (K come Kappler), malattia fantasiosa ma più micidiale della peste bubbonica, per impedire alle stesse Ss di accedere alle sale in cui erano ricoverati gli ebrei nascosti.
E se Kappler ebbe l'onore di finire da pollo nei manuali di medicina, Priebke non fece figura migliore quando venne ricoverato all'ospedale requisito alle suore. Era rimasto ferito, anche se non in eroica azione di guerra. Era andato, semmai, a far razzia nelle ricche ville dei Parioli i cui intestatari erano fuggiti a Pescara con il Re. Argenteria e quadri lì, pronti per essere portati via. Non aveva calcolato la presenza di un domestico, che sentì i ladri e sparò con un fucile da caccia: quanto bastò a mettere in fuga il capitano delle Ss, che lascio' anche il bottino. Fu curato a via Poggio Moiano e dimesso senza accorgersi di nulla. Lui, che era entrato nella Gestapo come esperto della caccia agli oppositori del nazismo e aveva fatto carriera nell'ufficio preposto ai rastrellamenti. Nessuno, né Priebke né Kappler, riuscì a mettere le mani su quelle famiglie di ebrei. Ma nessuno seppe per lunghissimo tempo cosa fosse successo tra un piano e l'altro di quel convento. Perché con la stessa cocciutaggine con cui Gino Bartali non volle mai raccontare il vero scopo dei suoi allenamenti in bicicletta per mezza Toscana, quelle suore dall'alto tasso di tetragona teutonicità tennero per sè questa storia di comune eroismo.
Venne alla luce quando loro erano tutte passate a miglior vita. L'Osservatore Romano ne ha scritto di recente. Ma nemmeno Andrea Riccardi, nel suo minuzioso "L'inverno più lungo", ha modo di citarle tra i circa 4.000 casi di ospitalità religiosa ad alto rischio che enumera in modo quasi certosino. A ogni modo, il 5 giugno 1944 gli stanzoni al piano terra tornarono liberi. Liberi, ma non sgombri. Nella fretta, gli uomini dell'Ordine Nero si erano portati via solo i pochi feriti, lasciando tutto il resto lì dove lo avevano portato molti mesi prima. Vale a dire: tutte le cartelle cliniche dei ricoverati ma anche stetoscopi, medicinali, garze, bacinelle smaltate. Forbici, filo per i punti, materiale per le ingessature. Se non fosse stato che tutto o quasi portava impressa l'aquila del Reich, si potrebbe dire 'tutto quel Ben di Dio'. Quelle suore aprirono la porta e si guardarono le une le altre. E ora che ne facciamo? Roma scarseggiava di tutto, in quei giorni, figuriamoci se non si aveva bisogno di quell'equipaggiamento militare che, finalmente, serviva a far del bene.
"Il nostro esempio, Francesco, ci direbbe di non buttare via niente". Proprio come avrebbe detto molti decenni dopo un altro Francesco illustre: no alla cultura dello scarto. Scattò l'operazione riciclo. C'era talmente tanta roba che furono coperte non solo le urgenze immediate del quartiere, ma si andò avanti anni e anni. Fino al giorno in cui (l'Italia aveva già superato da un pezzo la fase del Boom economico, e al posto dell'ospedale c'era una piccola ma eccellente scuola elementare) una bambina cadde durante la ricreazione e si sbucciò il ginocchio. Era ancora a terra quando le si parò davanti l'ombra di una suora, enorme. Aveva in mano un piccolo kit medico da campo, di cuoio nero, con stampata sopra una doppia S sormontata da un'aquila ad ali tese. "Alzati", le intimo' con accento tedesco. La bimba ubbidì senza fiatare, la suora pulì la sbucciatura, disinfettò il ginocchio e ci passò attorno la tintura di iodio. Poi aprì un rotolino bianco di garza, e fasciò. La garza finì. Era l'ultimo centimetro della scorta di guerra. "Da domani dovremo andare a comprarla in farmacia", disse la suora. E con quelle parole si chiuse definitivamente la storia dell'occupazione nazista di Roma.
Nicola Graziani