Dopo il risultato positivo, per certi versi anche sorprendente, delle elezioni in Emilia Romagna, si è riacceso il dibattito sul futuro del Partito Democratico. Da un lato c’è chi lo vorrebbe capace di integrare i movimenti alla sua sinistra, ben rappresentati dall’exploit di Elly Schlein. Dall’altro chi, come il presidente Bonaccini, che di quel risultato porta sicuramente un bel po’ del merito, mette in guardia dal perdere di vista i moderati e ricorda che persino un pezzo di destra ha scelto il suo buon governo. Ho l’impressione, tuttavia, che questa discussione rischi di essere falsata in partenza. Stiamo discutendo infatti di quale parte di elettorato il nostro partito debba "inseguire" rinunciando a definire invece di più e meglio l’identità del PD, attraverso battaglie nuove che vadano oltre definizioni vecchie che continuiamo a stiracchiare. Stiamo rinunciando così, neanche troppo implicitamente, alla vocazione maggioritaria che tutti affermiamo invece di voler ribadire. È vero che gli elettori di sinistra sono più sensibili al tema dei diritti di chi scappa dalla guerra, dalla fame, dalle torture e alla gigantesca questione delle disuguaglianze. È altrettanto vero che gli elettori cosiddetti moderati sono più preoccupati dal livello dei salari e dalla crescita, dal potere d’acquisto e dalla capacità di creare opportunità. È sicuramente vero che tutte queste cose sono ugualmente importanti per un partito che voglia dirsi progressista: la redistribuzione della ricchezza comporta la creazione della ricchezza stessa che, tuttavia, ha bisogno di equità per essere davvero ricchezza sociale. Tuttavia se pensiamo che basti curvare il nostro discorso pubblico in una direzione o nell’altra per conquistare elettori e costruire quel "campo largo" di cui tutti parliamo, commettiamo a mio avviso un grave errore. Il punto non è scegliere se inseguire la sinistra o il centro. Il punto è smetterla di inseguire e tornare a dettare l’agenda. Sarà forse scontato sentir dire a una vice ministra dell’Istruzione che la direzione ovvia di questa nuova strada da tracciare, nella quale siamo noi a definire le priorità e a sottoporle all’attenzione di un ampio spettro di interlocutori, passa dal finanziamento massiccio delle politiche educative da 0 a 100 anni. Per me non è una banalità. È lì, infatti, che si incrocia la questione della riduzione dei divari (territoriali ma anche sociali) con la creazione di opportunità, lì il tema del lavoro torna centrale nella necessità di incrociare attraverso le competenze domanda e offerta ma anche di creare nuovo lavoro, nuove opportunità. È l’educazione a darci la possibilità di immaginare politiche attive che si sviluppano lungo tutto il corso della vita e che non lasciano nessuno indietro. È l’educazione a darci una dimensione dell’invecchiamento attivo. È investendo in ricerca che possiamo provare a competere coi grandi del mondo e a ribaltare la terribile realtà di un Pil in tendenza negativa. È l’educazione che può abbattere gli stereotipi, renderci consapevoli del nostro ruolo nella difesa dell’ambiente, combattere l’ignoranza che genera mostri e ripropone aberrazioni razziste, stimolare l’integrazione e essere la via d’acquisizione della cittadinanza (era questo il senso dello ius culturae). Io credo che questo nuovo partito (o partito nuovo o quel che sarà) più che fare un nuovo congresso contando le tessere per decidere se dobbiamo inseguire la sinistra o il centro debba fermarsi a pensare alla sua parola d’ordine, alla bussola che vuole darsi, a quale sia l’idea attorno alla quale riunire un vero campo largo di forze. Per me ce n’è una sola: educazione, educazione, educazione. Discutiamone, però. Il congresso facciamolo su questo. Facciamolo sul serio.
ANNA ASCANI VICEPRESIDENTE PD