Sono calabrese e me ne vanto. Fiero calabrese. Calabrese per sempre. Perché bisogna averlo un luogo dell’anima, magari per il piacere di lasciarlo, di scappare via, di tenergli il broncio, di odiarlo e assieme... di amarlo, per il gusto di tornarvi, di camminare a ritroso nel tempo, dentro calde atmosfere, tra ritrovate sensazioni. C’è una vecchia canzone, a ritmo di samba, che a metà del secolo scorso per un tempo fu considerata una sorta di inno degli emigrati al Plata, una canzone trasmessa ripetutamente alla radio nella "Ora calabrese" e cantata nelle feste delle Associazioni, che da sola riesce a far capire cosa vuol dire essere calabrese, specialmente per chi vive lontano: "Cantu la mia canzuna calabrisi pecchì di chilla terra mia adorata nu jornu mi partivi… Emigrato io signu, e non me scuordu do u paìse, vallune e d’a montagna di chilla forte e lirica Calabria".
La Calabria insomma i calabresi non la dimenticano, non la possono dimenticare. Ma chi siamo i calabresi? "Siamo delle rocce con una grande dignità"", sosteneva Mia Martini, la grande cantante scomparsa. Ed è da sottoscrivere. Calabrese in eterno, dunque, perché esserlo è un sacerdozio. Senza mai dimenticare le radici e rinnegare le origini, anche quando, anzi, soprattutto quando il pregiudizio trabocca, pesante, opprimente, escludente. Quando gli stereotipi secolari, dardi infuocati imbevuti di veleno, ti vengono scagliati addosso a pioggia. Come avvenne a tanti emigrati: vale ricordare, a questo proposito, che proprio l’emigrazione nel tardo Ottocento rappresenta una delle occasioni per fare esplodere l’antico pregiudizio anticalabrese, riproponendo luoghi comuni sui calabresi "infidi e ribelli", ritenuti addirittura fustigatori di Cristo!
Contro questi giudizi e pregiudizi, alimentati dalla cultura europea del tempo, calabresi allora lo si è per sempre. Se si è ricchi e se si è poveri. Se si è nobili o plebei. Sempre, con lo stesso orgoglio, con la stessa tenacia, ovunque ci si trovi, in qualsiasi contesto, in qualsiasi parte del mondo la vita ci ha portati, come testimoniano migliaia e migliaia di corregionali migranti. È questa, insomma, la calabresità: una "malattia" che sta nel Dna ed è dunque ereditaria, tanto da "ammalare" i figli dei figli dei figli che tornano nei luoghi in cui la loro storia è cominciata per rivivere l’emozione trasmessa loro dagli antenati. La nostalgia per la Calabria triste e radiosa, infatti, è stata il pane e il companatico di tanti emigrati che hanno smaniato a volte per un impossibile ritorno. Essa è valsa in ogni caso a rendere più solido quel rapporto ideale con la terra natale, con il paese, le sue strade, la sua gente, le sue albe e i suoi tramonti, i suoi odori inconfondibili impressi nella mente e nel cuore, tutte sensazioni impossibili da trovare in altra parte del mondo.
Il comune denominatore di molti racconti riguardanti tutto il ciclo emigratorio, è noto, è quello dell’impatto drammatico con la nuova realtà e della paura del domani in una terra che non suscitava il tumulto di emozioni di quella natale. Una realtà, insomma, che non aveva le armonie della vecchia casa, vere o soltanto amplificate dalla nostalgia e dalle difficoltà incontrate allo sbarco contro le quali nulla potevano gli occhi supplicanti. Il bisogno di creare un paese doppio in terra ignota e straniera nasce proprio da queste sensazioni incancellabili. Una volta passato il tempo ed elaborato il lutto sociale seguito allo sradicamento, infatti, è cresciuta la voglia di non sentirsi soli, di associarsi e di rendersi visibili come gruppo etnico per non disperdere la propria memoria, anzi per rivitalizzarla, custodendo con gelosia costumi e consuetudini.
Come altre nei luoghi d’emigrazione, l’Associazione calabrese di Montevideo è un esempio vivo di tutto ciò. Ancora una volta lo dimostra con questa festa dell’8 marzo che vuole celebrare l’italianità in Uruguay. Valorizzare la cultura italiana e la cucina dei sapori tramandati, significa conservare tratti di una identità mai persa. Anzi li esalta.
PANTALEONE SERGI