È ormai chiaro che il Coronavirus non è solo una epidemia gravissima che sta giustamente allarmando il paese. Per le proporzioni del contagio e per le sue conseguenze, ha ormai assunto un altro valore: un fenomeno che interroga il nostro modo di vivere, di pensare, di relazionarci agli altri. La fase iniziale ci ha colto tutti di sorpresa, impreparati: scopriamo solo ora che la malattia era già tra noi prima che si prendessero le misure più restrittive. Abbiamo anche appreso che il famoso paziente zero di Codogno forse non è mai esistito e il Covid-19 si è probabilmente diffuso in Europa tramite un tedesco asintomatico.
Le scelte collettive, in primo luogo quelle politiche, e i comportamenti individuali di allora sono stati presi in una condizione di seminormalità; non c’è alcun elemento per poterle oggi mettere in discussione. Altro, ben altro, è quello che sta accadendo ora. Tutti gli esperti, ma davvero tutti, ma anche qualsiasi cittadino minimamente informato, convengono sull’attuale stato dell’epidemia: siamo in una condizione di alta gravità. Lo dicono i numeri, dei contagiati, dei ricoveri, dei morti.
Lo dicono le previsioni tendenziali. E’ ormai chiaro a tutti quale sia il rischio maggiore: non tanto la malattia in sé, perché può cogliere in forme lievi e ha un tasso di mortalità molto basso (tra il 3 e 4%), ma la paralisi del sistema sanitario nazionale e dunque l’incapacità di far fronte ad un adeguato sistema di cure per tutti. A questo proposito pare opportuno ricordare che se la Cina ha dovuto costruire al più presto un nuovo mega-ospedale, se gli USA sono ora preoccupati perché non hanno una politica sanitaria capace di fronteggiare la situazione (farsi un tampone lì costa a un cittadino americano oltre 3000 dollari e solo pochi Stati li hanno a disposizione), il nostro grande paese ha un sistema sanitario pubblico, finanziato grazie alle tasse che "quasi" tutti noi paghiamo (pensiamoci la prossima volta che spariamo qualche banalità contro il sistema di tassazione), tra i migliori al mondo, con un personale sanitario di eccellente valore, (pensiamoci la prossima volta che spariamo qualche banalità contro i dipendenti statali) e con un numero di posti letto per malattie infettive e terapia intensiva per abitante tra i più alti.
Eppure non bastano, perché non siamo in condizione di normalità: stiamo combattendo una guerra, deve essere chiaro a tutti. Per questo oggi sono gravissimi sia i comportamenti privati di chi non rispetta le regole, come i delinquenti, perché questo sono, che scappano dalle zone rosse per andare a sciare o per trasferirsi in altre regioni, ma anche degli irresponsabili che si accalcano per ascoltare una cantante in un centro commerciale, ma ancor di più di chi organizza questi eventi; di chi, pur conoscendo la situazione continua a parlare di "città che non si fermano", di spritz o musei gratis per tutti, di "terribile colpo alla manifattura a causa di scelte pubbliche esagerate per una semplice influenza".
Questo non è certo il modo per evitare il panico: così si mostra piuttosto di essere completamente inadeguati a ricoprire ruoli organizzativi, pubblici o privati che siano. La crisi economica legata al virus ci sarà: sarà l’estensione del contagio, grazie alle scelte responsabili che ognuno, istituzioni e privati cittadini, prenderà oggi, a determinarne la effettiva portata. Bisogna evitare ogni assembramento, bisogna stare a casa, se proprio non è necessario muoversi, bisogna evitare comportamenti irresponsabili per se stessi e per gli altri.
Lo dicono i virologi; ascoltiamo loro, non chi non ha alcuna competenza. E chi non ha competenza abbia la decenza di stare zitto, almeno ora, sopratutto se è qualcuno che, per la propria visibilità è più ascoltato di un comune cittadino. L’Italia si può fermare, per ripartire presto più forte. Per farlo abbiamo bisogno di addestrare una dote che come italiani abbiamo poco sviluppata: il rispetto ferreo delle regole, la assunzione di responsabilità privata e sociale, l’affidamento delle nostre decisioni ad altri (gli scienziati) che devono decidere per noi, la rinuncia alla vanagloria di sparare ogni giorno la nostra sentenza sui social, per comunicare, per apparire, spesso in realtà in modo vuoto o stonato, e senza dare alcun contributo utile. Sono convinto che ci riusciremo, non perché siamo un popolo di talenti creativi e ingegnosi, ma perché potremmo diventare un paese di cittadini eticamente responsabili e ligi alle regole.
GIANLUCA BUSILACCHI