Le misure decise - 25 miliardi distribuiti a famiglie e imprese - rispondono, nel modo più equo e diffuso possibile, alla drammatica emergenza che si è abbattuta su di noi e tra di noi. Non risolvono tutti problemi, ma li affrontano e ne impediscono la deriva. Sappiamo che non basterà e che già nel prossimo mese di aprile, con un altro decreto, dovremo gestire l’evoluzione della situazione. Lo faremo, con la stessa determinazione e disponibilità con le quali abbiamo affrontato questa prima fase. Lo possiamo fare non perché siamo uno Stato economicamente florido e in crescita, ma perché siamo uno Stato sociale.
Un’imponente manovra tutta di spesa – che allevia e ristora il disagio economico dei cittadini, spaventati e preoccupati per la propria salute – regge la prova di un bilancio pubblico già in difficoltà, solo se dietro c’è un’idea di politica e di società. Se ci fossimo affidati solo all’equilibrio dei conti (sano principio contabile), al pareggio di bilancio (pur nella versione light dell’articolo 81 della Costituzione), alle esigenze di liquidità dello Stato (inderogabili per sostenere la nostra straordinaria sanità, le pensioni e i servizi pubblici) avremmo gestito diversamente questa fase.
Avremmo selezionato le misure, stabilito un rigoroso ordine di priorità, messo nel conto che non tutti possono essere protetti. Quello che, insomma, è sempre bene fare in una manovra economica. Questo approccio selettivo è ben diverso rispetto alla scelta fatta di intervenire a pioggia. L’eccezionalità della situazione ha indotto il governo a un approccio anch’esso politicamente e culturalmente eccezionale. La scelta per la quale "nessuno deve sentirsi abbandonato" dallo Stato, applicata sul piano sanitario, deve valere anche sul piano economico.
Si è molto discusso, in queste ore, del modello italiano in confronto al presunto modello inglese. Protezione generale (allo stremo delle nostre forze e possibilità) o protezione selettiva (risparmiando risorse per i sopravvissuti). Ci sono motivazioni profonde, culturali ed etiche, che affondano nella storia, che giustificano queste differenze tra l’approccio latino e quello anglosassone. E tra queste l’idea di Stato. Talvolta pervasivo e soffocante (difetti correggibili), ma presente! Punto di riferimento collettivo dei cittadini considerati persone e comunità. Ecco che questa idea di uno Stato "sociale" nel senso più pieno del termine, che andava scemando nella coscienza collettiva, anche in ragione di una vincente cultura utilitaristica, ritorna in servizio di fronte a questo dramma.
Quando abbiamo deciso di chiedere al Parlamento non i 7 miliardi preventivati in una prima fase, ma direttamente 25 miliardi e quando in stesura del decreto li abbiamo distribuiti tutti, anziché la metà ipotizzata per tenerci una riserva, abbiamo operato questo passaggio tra due modi di guardare in faccia l’emergenza e abbiamo scelto quello meno lungimirante e conveniente per i conti pubblici, ma quello più rispondente alla domanda di vicinanza dei nostri cittadini. Mi è stato obiettato che non è la scelta economicamente più giusta. Non nascondo il dubbio, ma sono convinto che, non in assoluto, in questo preciso momento storico, è la migliore.
È, infatti, una scelta che ci espone a rischi, in quanto altri interventi saranno necessari e, sempre più, le risorse scarseggiano e finiscono (anche per questo è necessario subito un massiccio piano europeo), ma è la scelta che ci mette nelle condizioni di stare dalla parte dei cittadini e di poter, quindi, spiegare loro che davvero siamo tutti nella stessa barca e che dovremo affrontare l’emergenza sanitaria ed economica insieme, con lo stesso spirito di solidarietà di popolo che ha segnato i grandi momenti della nostra storia.
PIER PAOLO BARETTA
SOTTOSEGRETARIO ECONOMIA