La pandemia, derivante dalla diffusione del Coronavirus viene equiparata, negli effetti, ad una guerra. In effetti il numero delle vittime, tra contagiati, ospedalizzati, e deceduti, è equiparabile a quelli registrati nelle fasi più drammatiche di eventi bellici di scala mondiale. La strategia prescelta dal governo per limitare la diffusione del virus è assimilabile a quella di una guerra di trincea: tutti al riparo fino all’arrivo dei nostri (antivirali e vaccini specifici).

Gli effetti nefasti del contagio non sono, però, soltanto epidemiologici. Il flagello non colpisce, infatti, soltanto la salute fisica. Si abbatte anche sul sistema nazione. Gli effetti collaterali di tali misure di contenimento minano democrazia, libertà e benessere. Le limitazioni alla libertà degli spostamenti, lo stop imposto alla produzione ed alle attività commerciali, generano una radicale frenata delle economie, compromettendo le prospettive non solo di crescita ma anche di sussistenza delle popolazioni più colpite. Il rimedio, in questi casi, può rivelarsi peggiore del male. E se l’epidemia è certamente immanente, la carestia può considerarsi imminente.

Nemmeno durante la seconda guerra mondiale le economie dei Paesi coinvolti hanno mai registrato una così brusca frenata. La stasi degli scambi commerciali non è stata mai imposta dai governi alle nazioni belligeranti. Tali scenari sono restati circoscritti ai luoghi devastati dalle battaglie più cruente, quale effetto del ricorso massivo ad armi di distruzioni di massa. Economia e guerra sono sempre state dimensioni fortemente interconnesse. Talvolta, durante i conflitti, si registra addirittura la crescita dei parametri economici dei Parsi in guerra. In Italia, durante il secondo conflitto, il reddito non è cresciuto, si è comunque assistito all’espansione di alcuni comparti produttivi, come quello dell’industria meccanica e della produzione cantieristica. La guerra epidemica, invece, si combatte con armi che, sotto il profilo economico, generano unicamente scenari recessivi.

Gli stati membri della Ue, pertanto, devono tempestivamente valutare la sostenibilità dei rimedi adottati (sospensione delle attività produttive) con i criteri di rigore e austerità imposti dall’Unione, a cominciare dal pareggio di bilancio e dal fiscal compact. Se si vuole scendere in guerra e sconfiggere il nemico bisogna dotarsi delle armi più efficaci, e non si può badare a spese. È noto che "i profeti senz’armi ruinarono". L’Italia è tra i sette Grandi, uno dei Paesi maggiormente industrializzati, deve dotarsi degli strumenti per proteggere l’apparato economico e produttivo della Nazione. Non si può pensare di affrontare una lunga battaglia epidemiologica senza fare massicciamente ricorso alla spesa pubblica. L’impossibilità di svolgere attività lavorative, impone la necessità di distribuire sussidi alimentari di massa alle famiglie degli autonomi e dei loro dipendenti, ossia ai nuclei privi di reddito durante lo stop delle attività.

La mancanza di sussidi alimentari dissanguerebbe, stremandola, la popolazione colpita compromettendone le capacità di ripresa. Sulla sostenibilità finanziaria dei sussidi di quarantena va detto che l’adesione all’Unione Europea ha comportato cessioni di sovranità ad una articolata struttura sovranazionale i cui centri decisionali (Commissione europea e Bce) sono privi di effettiva base democratica. Tali cessioni sono avvenute mediante la sottoscrizione di trattati i cui contenuti hanno imposto scelte di politica economica nefaste ed anticostituzionali. Occorre porre fine a tale inaccettabile stato di cose. Che questa Europa non fosse l’Europa dei popoli ma dei banchieri non era necessario ulteriormente dimostrarlo, eppure Covid-19 lo ha reso evidente. Il contagio deve, allora, essere contenuto badando bene però dal mettere in ginocchio l’economia nazionale, prescindendo dai vincoli di bilancio imposte dal rigore europeista. Occorre adottare misure funzionali a preservare le basi per la successiva ripresa: lo stato di eccezione, connesso all’emergenza epidemica, consente l’esercizio incoercibile di prerogative di spesa sovrane, sottratte a vincoli di rigore eurocratico che, in tale fase, rivelerebbero esiti non solo criminali ma drammaticamente criminogeni.

Il Governo britannico, in pochi giorni, è passato dall’immunutà di gregge alle provvidenze di massa garantendo copertura all’80% dei salari, fino a 2500 sterline, per dipendenti delle imprese costrette a chiudere. Ai lavoratori autonomi, invece, il governo di sua maestà garantisce un reddito equivalente alla retribuzione per malattie. I lauti sussidi saranno elargiti dalla banca d’Inghilterra, con denaro pubblico e senza interessi. Miracoli della Brexit si direbbe, e comunque realizzabili solo da economie sovrane. Si tratta certamente di un intervento da economia di guerra, funzionale a preservare, per il futuro, la base economica nazionale ed evitare il baratro della depressione.

Il governo italiano ritiene bastevole, invece, un intervento che non turbi le eurocrazia. 25 miliardi sono però appena sufficienti ad operare l’ennesimo salvataggio di Alitalia. L’Austria, per i suoi 8 milioni di abitanti, ha stanziato di più. Gli autonomi sono costretti ad affrontare da soli il flagello con i propri risparmi. Ampi strati della popolazione meridionale non dispongono nemmeno di quelli. Quindici anni di austerità per Conte, Gualtieri e co& sembrano passati invano. Costoro non sono ancora persuasi che la tesi secondo la quale "l’austerità fa crescere" è falsa: quindici anni di tagli e di rigore fiscale quello che hanno fatto crescere è disoccupazione, precarietà ed il livello del debito pubblico. Il ricorso a sussidi o redditi alimentari di quarantena deve riconoscersi come una misura necessaria senza la quale la ripresa economica, al termine di questa travagliata notte, potrebbe rivelarsi appannaggio esclusivo dei paesi che avranno saputo affrontare al meglio l’esperienza pandemica. Le economie che avranno beneficiato del concreto sostegno dei loro Stati ci sottrarranno allora i nostri mercati di esportazione. E per noi resteranno recessione e milioni di disoccupati.

CARMINE IPPOLITO