Era il dopo guerra, l’immediato dopoguerra e Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil, coniò lo slogan e praticò la politica del prima le fabbriche, poi le case. C’erano allora letteralmente le case da ricostruire, ma Di Vittorio capiva che se in case anche nuove avessero abitato gente che non aveva lavoro sarebbero state case di fame e miseria.

Mutuando da Di Vittorio anche oggi lo slogan e la politica dovrebbe essere prima le fabbriche. Prima le fabbriche e le aziende ad avere, subito, la cosiddetta liquidità. Cioè il credito e i finanziamenti, materialmente i soldi per non licenziare, per non chiudere in tutto o in parte. Prima le fabbriche e le aziende ad avere credito e finanziamenti rimborsabili in decenni a tasso praticamente zero. Prima le fabbriche e le aziende ad essere accompagnate e sospinte non solo a restare in piedi ma anche a mutare pelle. Interi settori, ristorazione e turismo ad esempio ma anche gran parte del commercio, dovranno pesantemente convivere con il coronavirus.

Quindi mutare spazi, ambienti, modalità di fruizione del servizio e delle merci. Dovranno investire in ristrutturazione degli ambienti, dovranno inventare nuovi servizi. E scontare almeno un anno di fatturato frantumato. Se non sarà prima le fabbriche e le aziende, questi settori semplicemente non ce la faranno. Prima le fabbriche e le aziende, cui non basterà dare finanziamenti, liquidità e indirizzo di politica economica. Qualcuno chiuderà comunque e forza lavoro andrà spostata da settore a settore. Spostata dopo essere stata qualificata per il nuovo lavoro.

Prima le fabbriche e le aziende, anche nel pensare e programmare. Prima le fabbriche e le aziende, poi i redditi di sostegno, emergenza, sopravvivenza, assistenza o quel che sia. Questi redditi nell’immediato sono doverosi, nell’immediato breve. Alla neanche tanto lunga nel tempo questi redditi hanno due congeniti difetti di funzionamento. Il primo è che non possono essere sostenibili alla lunga, da nessun governo al mondo, da nessuna Unione, europea o nordamericana che sia, da nessuna Banca centrale o mondiale che fosse. Tre mesi, sei mesi di redditi di assistenza a vasta parte delle popolazioni e poi, semplicemente e drammaticamente finiscono i soldi. E se ne stampi di nuovi e di nuovi e di nuovi di soldi finisce che valgono di meno, di meno, di meno…

Il secondo difetto dei redditi di assistenza alla neanche tanto lunga nel tempo è che di fatto intralciano e boicottano il produrre nuovo valore e, ancor peggio, sono alimento per rancore e rivolte sociali. Quindi dei cento miliardi o quel che sarà la spesa pubblica del governo italiano causa coronavirus, dei circa duemila miliardi o quel che sarà degli acquisti di Bce di titoli italiani (non fosse per Bce alla lunga all’Italia mancherebbe il liquido per stipendi e pensioni) e di messa mano per il momento al portafoglio Ue, dei soldi (insufficienti) oggi stanziati e di quelli che dovranno venire, prima alle fabbriche e poi ai redditi.

Prima alle fabbriche: condizione indispensabile perché poi redditi vi siano. Il contrario, cioè prima i redditi e poi le fabbriche, esaurisce il pozzo e poi lo chiude. C’è però un però gigantesco, tanto grande da apparire insormontabile. La cultura, l’anima e la natura profonda della stragrande maggioranza delle forze politiche e sociali italiane sono strutturate e disegnate per il prima i redditi, poi, casomai, fabbriche e aziende. M5S nasce dal binomio: produrre è peccato (veniale, talvolta mortale), reddito ci spetta indipendentemente dalla produzione. Pd sul tema dei redditi di assistenza è solo una variante appena un po’ più realistica di M5S, ma i fondamentali sono gli stessi. La destra politica italiana, anche quella odierna di Salvini, è sempre stata assistenzialista e clientelare nei fatti, non a caso lo slogan della Meloni è il recentissimo: mille euro a chi si presenta in banca!

L’intero sistema politico e sociale (per prima i redditi e poi le fabbriche e le aziende sono ovviamente i sindacati e le associazioni di categoria e le associazioni professionali tutte, di tutte le professioni) è da decenni edificato su fondamenta chiare: la spesa pubblica come reddito di assistenza all’intera società (sia pure per quote ineguali). Come possa un ceto politico, come possano le rappresentanze di interessi e parti sociali siffatte riconvertire se stesse al prima le fabbriche e le aziende e poi i redditi di assistenza è domanda che, in fondo, sarebbe meglio non porsi. La risposta è che no, non andrà tutto bene.

LUCIO FERO