Venti anni senza il grande Mattatore. Esattamente il 29 giugno 2000, all’età di 78 anni, scompariva il grande Vittorio Gassman causa un attacco cardiaco. "Il Mattatore" entrò nei salotti d’Italia con un varietà televisivo nel 1959 il cui titolo divenne il suo epiteto. Istrionico e magnetico, guascone e camaleontico, Gassman era figlio di un ingegnere civile tedesco e di una casalinga di origini pisane e di religione ebraica, che abitavano a Genova, città dove l’attore nacque il 1º settembre del 1922. Ancora molto giovane si trasferì a Roma e ottenne la maturità classica al Liceo Torquato Tasso nello stesso periodo di Giulio Andreotti, quindi frequentò l'Accademia nazionale d'arte drammatica, nella quale studiarono anche Paolo Stoppa, Rina Morelli, Adolfo Celi, Luigi Squarzina, Elio Pandolfi, Rossella Falk, Lea Padovani e, successivamente, Paolo Panelli, Nino Manfredi, Tino Buazzelli, Gianrico Tedeschi, Monica Vitti, Luca Ronconi e altri.
Il suo debutto teatrale avvenne a Milano nel 1943 con Alda Borelli nella "Nemica" di Dario Niccodemi. Si spostò quindi a Roma, al Teatro Eliseo, unendosi a Tino Carraro ed Ernesto Calindri in un trio che rimase celebre: con loro recitò in diverse opere, dalla commedia borghese al teatro intellettuale, senza difficoltà nel passare da una all'altro. Nel 1945, all’età di 23 anni, debuttò al cinema nel film "Incontro con Laura" di Carlo Alberto Felice, una pellicola andata perduta, così che il suo il suo primo film superstite è "Preludio d’amore" del 1946, regia di Giovanni Paolucci. Nel 1947 si fece conoscere dal grande pubblico con "Daniele Cortis" di Mario Soldati e due anni dopo colse il suo primo grande successo con "Riso amaro" diretto da Giuseppe De Santis, uno dei capolavori del primo neorealismo. Nello stesso anno recitò nel film "Una voce nel tuo cuore" di Alberto D'Aversa, dove interpretò un giornalista al fianco di Constance Dowling, Nino Pavese e Beniamino Gigli. Così divenne romano più di tanti romani interpretandone i pregi e i difetti.
Ma essendo un camaleonte della recitazione seppe poi calarsi nei panni di abitanti di diverse regioni, dal ligure al veneto, dal toscano al milanese, ingerendo le diverse inflessioni dialettali. Ma alla fine è stato tanto romano da meritarsi, come solo Anna Magnani e Marcello Mastroianni, una doppia targa stradale nelle vie della capitale. Quando decise di mettersi a nudo, prima come attore e poi come uomo chiarendo nella sua autobiografia i tarli dell’anima, si scoprì la fatica della perfezione, l’infaticabile ricerca del dettaglio, la necessità di superarsi ogni volta con precisione maniacale. Con una personalità bipolare, si descrisse malato di depressione, nausea di vivere, fatica di convivere con la propria immagine pubblica. Si può dire che era innamorato di ciò che l’esistenza gli aveva proposto, considerandola quasi una amica o una consigliera o una confidente capace di sbagliare. Difatti sul set andava per conto proprio con quel viso aperto e franco, pieno di doppi giochi e inganni, con quel corpo possente da gigante buono.
Aveva ereditato la presenza scenica del prim’attore da Renzo Ricci, padre della prima moglie e quindi usava il corpo come strumento della sua arte. Il cinema gli offrì la grande occasione la sfruttò sino in fondo grazie a Mario Monicelli che gli diede l’occasione di essere "un altro". Nel film "I soliti ignoti" del 1958 incontrò il successo nel modo meno atteso: con Peppe "er Pantera", pugile suonato, dalla parlata incerta, ladro per caso, indossò una maschera comica che lo avrebbe accompagnato per anni. Fu l’inizio di un’escalation inarrestabile che lo ha consacrato alla storia della commedia all’italiana, uno dei "quattro colonnelli" della risata insieme a Sordi, Tognazzi, Manfredi. Così venne scelto dalle grandi firme del momento, Dino Risi, Luciano Salce, Luigi Zampa, Ettore Scola. Nelle mani di Monicelli divenne il Brancaleone sul "Miles Gloriosus" plautino, con Risi si fece lo spaccone disperato de "Il sorpasso", con Scola fu complice in tutto l’itinerario della maturità da "C’eravamo tanto amati" a "La famiglia".
Divenne famoso anche all’estero lavorando con Robert Altman, Paul Mazursky, Alain Resnais, André Delvaux, Jaime Camino, Barry Levinson. Meno riuscito il ruolo di regista nelle pellicole "Kean" o "Senzafamiglia, nullatenenti cercano affetto" in coppia con Paolo Villaggio. Chiuderà la carriera là dove l’aveva iniziata, sul palcoscenico, tra l’intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile edizione della "Divina Commedia" e lo spettacolo "Ulisse e la balena bianca", una sorta di testamento artistico ed esistenziale. Sognava di morire in scena ma finì i suoi giorni a casa, in quel luogo privato dove visse con tre mogli e tre compagne, tutte molto amate, da cui ha avuto quattro figli, tre dei quali ne hanno seguito le orme. Sognava pure di avere un suo teatro ma solo dopo la morte il Quirino di Roma gli è stato intitolato. Meritava l’Oscar ma lo prese Al Pacino al posto suo per il remake di "Profumo di donna" e si dovette accontentare di un premio a Cannes. La Mostra di Venezia gli diede il Leone d’oro alla carriera nel 1996, forse troppo tardi.
MARCO FERRARI