"La posizione del Pd sul referendum che taglia i parlamentari per ora è sì". Dall’area di Nicola Zingaretti filtrano poche parole, agganciate alle "dichiarazioni che lasciano ben sperare" pronunciate da Luigi Di Maio sul fatto che la legge elettorale si farà e che sarà "rappresentativa al massimo". "La nostra posizione sul referendum non cambia – conferma Roberta Pinotti, ex ministro della Difesa e responsabile Riforme nella segreteria Dem – Ma premere sui tempi di una legge elettorale in senso proporzionale non è un’impuntatura: a settembre, se la consultazione passa, ci sarà un importante taglio dei parlamentari che porrà un problema di democrazia e di rappresentanza dei territori. A parte il fatto che sulla legge elettorale c’era un accordo sottoscritto da tutte le forze di maggioranza, e in politica pacta sunt servanda, la preoccupazione del Pd è seria e corretta".
La realtà, come tutti gli attori in campo sanno – e ammettono sottovoce - è che fino al 21 settembre si fa pura accademia. Si andrà al voto referendario insieme a quello per le Regionali senza nessuno straccio di ipotesi di nuova legge elettorale: soltanto dopo l’esito del braccio di ferro nelle sei regioni, le nuove geometrie politiche delineeranno il prossimo sistema. Due le alternative sulla carta: il modello spagnolo o un proporzionale con soglia assai più bassa del 5%. Quando, però? Quanto tempo ci vorrà per arrivarci? Il "dopo", infatti, nasconde un’insidia che nessuno vuole evocare ma che tutti hanno ben presente: se si verificasse un incidente parlamentare si finirebbe al voto anticipato con la nuova riforma e la legge elettorale in vigore. Un’"incompiuta" di cui è difficile valutare ex ante gli effetti, ma che ad esempio ridurrebbe i senatori dell’Umbria, regione tradizionalmente rossa, da sette a tre. Ecco perché, nei gruppi parlamentari ci sono distinguo e perplessità crescenti.
A guidare il malcontento sono Giorgio Gori e Tommaso Nannicini, ma ci sarebbero altri pronti a uscire allo scoperto. Posizioni che non nascono oggi: durante l’iter parlamentare i Dem hanno votato tre volte contro la riforma costituzionale che riduce i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200, cambiando idea solo la quarta volta in funzione dell’accordo di governo con i Cinquestelle, però con la garanzia di una nuova legge elettorale ad accompagnare la transizione. Tra gli scettici della prima ora c’era già Matteo Orfini, che votò la legge "anche se fa schifo". Adesso avverte: "Era accettabile in un contesto che prevedeva il proporzionale e altri contrappesi. Invece, come al solito, andiamo avanti sulla base di promesse che non si realizzano". E conclude: "Da Zingaretti serve un’indicazione politica. La posizione va ridiscussa, in queste condizioni non si può dare indicazione di voto per il Sì".
A far deflagrare le distanze siderali tra le preoccupazioni dei Dem e l’entusiasmo grillino è stato Goffredo Bettini, politico romano di lungo corso anche se in buona parte dietro le quinte, da sempre vicino all’attuale segretario Pd: "Senza una riforma istituzionale ed elettorale dimezzare i parlamentari può essere pericoloso". Aggiungendo che la responsabilità di aver fatto saltare l’accordo di maggioranza sul proporzionale non ricade sul Nazareno. Il riferimento è ovviamente ai renziani, che replicano con veemenza: "Nessuno può essere così sprovveduto da pensare che si possa approvare una nuova legge entro settembre. Non ci sono né i tempi né le posizioni politiche. Il Pd vuole solo trovare qualcuno su cui scaricare la colpa". E dunque? Molto difficile che il partito guidato da Nicola Zingaretti – personalmente freddo verso il referendum – possa fare inversione a U. Sarebbe un harakiri politico con conseguenze sulla stabilità di governo, come hanno prontamente avvisato sia Di Maio che il capogruppo M5S in commissione Affari Costituzionali di Montecitorio Giuseppe Brescia.
Più facile, come dicono in molti, che attraverso Bettini sia stato mandato un avviso ai naviganti. E che il partito non si intesterà questa battaglia: "Lei vede campagna elettorale, informazione, spazi comunicativi sul referendum? - spiega un deputato – Il tentativo è derubricarlo a fatto secondario. La testa di tutti i politici è sulle Regionali, quella degli elettori sul coronavirus...". A quel punto – grazie all’election day che fa da traino per l’affluenza – è facile prevedere la vittoria del sì ad un tema così popolare. E per certi versi populista. Come conferma la cautela anche di Italia Viva: "Le legge elettorale servirà per il 2023 e noi vogliamo farla – argomenta Ettore Rosato, capogruppo renziano in Senato – Ma adesso occupiamoci delle vere emergenze, a partire dal coronavirus. Quanto al referendum costituzionale, non abbiamo chiesto spazi né per il Sì né per il No. Lasceremo agli elettori libertà di voto. È un accordo che hanno fatto Pd e M5S". Come dire: le castagne dal fuoco se le tolgano loro.
Federica Fantozzi