A quasi un mese dal referendum confermativo del taglio dei parlamentari - riforma votata da tutte le forze politiche, dal Movimento 5 Stelle principale promotore alla Lega, da Fratelli d’Italia a un Pd che in terza lettura cambia idea e si allinea al neo-compagno di governo – comincia a svilupparsi sui giornali un interessante dibattito sulle ragioni del Sì e del No. Sotto il profilo "tecnico", vale la pena di registrare il silenzio di quasi tutti i costituzionalisti che nel 2016 hanno fatto campagna elettorale in prima persona (per il No contro la riforma Renzi-Boschi).
Peccato, perché essi potrebbero dipanare o confermare dubbi e perplessità su come questa modifica, esclusivamente aritmetica, dovrebbe rendere più efficiente il Parlamento (infatti il bicameralismo perfetto, con i cosiddetti "rimpalli" dei disegni di legge tra le Camere, rimarrebbe intatto). E come mai la rappresentanza democratica, con un rapporto eletti/ elettori ridotto a uno su centomila (uno dei più bassi in Europa), dovrebbe uscirne rafforzata. Dal punto di vista invece "politico", alcune discussioni sono davvero deprimenti; anche se, ahinoi, saranno quelle determinanti per l’esito del referendum. Mi riferisco ovviamente al vento moralistico che spira oggi impetuoso, alimentato dalle recenti notizie sui furbetti del bonus, e al sempre maggiore discredito in cui è caduto il "mestiere" del parlamentare, complice l’indecente condotta – che non si intende minimizzare - di diversi rappresentanti non solo negli ultimi mesi, ma nei lunghi decenni trascorsi.
I sostenitori del Sì dovrebbero ad esempio spiegare perché un mero taglio del numero dei deputati (da 630 a 400) e dei senatori (da 315 a 200) dovrebbe di per sé portare a una migliore selezione degli eletti. Si potrebbe addirittura pensare il contrario, cioè che, con un Parlamento ridotto di un terzo, i partiti tenderanno sempre più a candidare e "spingere" i fedelissimi, che raramente sono anche i più onesti o i più competenti. Neppure la legge elettorale da sola può nulla su questo aspetto: il declino del prestigio del Parlamento è una questione ormai pre-politica, non esistono formule matematiche per risolverla. Ancor meno interessanti le argomentazioni sui risparmi finanziari.
Le stime vanno dai 300 (secondo l’Osservatorio Conti Pubblici Italiani) ai 500 milioni di euro (secondo il M5S) per una intera legislatura, cioè stiamo parlando al massimo di 100 milioni all’anno; l’equivalente di poco più di un caffè per ogni italiano. Possiamo decisamente passare ad altri temi. Sempre nelle discussioni politiche rientrano quelle posizioni secondo cui sarebbe coerente con la storia della sinistra riformista votare a favore del taglio dei parlamentari, e che sarebbe un autogol per il Partito democratico regalare questa battaglia ai populisti. Sono riflessioni che in questi giorni si leggono soprattutto sul Foglio, giornale che non nasconde di sostenere l’attuale governo giallorosso soprattutto per la sua funzione di argine ultimo contro la destra di Salvini.
A questa corrente di pensiero vorrei dedicare una riga in più. Per quel che può interessare, ho sostenuto la riforma Renzi del 2016, e mi sono sempre considerato vicino alla sinistra liberal, ma non credo che questa sforbiciata senza criterio, finalizzata non già a migliorare l’iter legislativo ma soltanto a mostrare ai cittadini lo scalpo di un pugno di appartenenti all’odiata Casta, abbia nulla a che fare con la storia del riformismo. Per tutta la Seconda Repubblica si è cercato, senza successo, di modificare l’assetto istituzionale, il più delle volte rendendo meno farraginoso il procedimento di formazione delle leggi (ad esempio trasformando il Senato in senso federale/regionale, non più paritario nelle sue funzioni rispetto alla Camera), modificando gli equilibri tra poteri legislativo ed esecutivo (a favore del secondo), e anche riducendo, certo, il numero dei parlamentari – ma all’interno di un disegno più ampio di ridisegno costituzionale, non come misura isolata e autosufficiente. Alla vigilia di ogni referendum, si è sempre detto che se avesse vinto il No si sarebbe posta "una pietra tombale sui progetti di revisione costituzionale per i successivi vent’anni".
Ogni volta la battaglia referendaria veniva vissuta come l’Armageddon del riformismo istituzionale, adducendo la fondata considerazione che un pronunciamento avverso del popolo avrebbe congelato ogni altro tentativo per chissà quanti lustri o decenni. Ebbene, siamo sempre qui, ancora qui: a votare una riforma costituzionale, soltanto quattro anni dopo la bocciatura della Renzi-Boschi.
Questa evidenza suggerisce semmai il contrario di quello che pensavamo: non sono le bocciature referendarie a seppellire successivi progetti di riforma, che anzi rinascono ogni volta più caparbi; sono molto più facilmente le vittorie dei Sì a impedire aggiustamenti per un lungo tempo a venire. Il che è assolutamente sensato: non si modifica subito qualcosa che è stato avallato, mentre si tende a riproporre – riprovare, possibilmente migliorando – qualcosa che non è passato. Ecco quella che credo la principale ragione per votare No il 20 e 21 settembre. Con il taglio dei parlamentari, l’Italia si precluderebbe la possibilità di darsi davvero un diverso Parlamento, non soltanto più magro in termini quantitativi, ma anche più efficiente, e insieme un governo più forte ed autorevole, esattamente come tutti i riformisti coerenti con la propria storia hanno sempre suggerito.
Chi non ne fosse ancora convinto, pensi proprio al dato numerico. Se in futuro volessimo eliminare il bicameralismo perfetto, "abolendo" (mi sia concessa per semplicità questa parola) il Senato, dovremmo tenerci una sola Camera di appena 400 deputati? Oppure dovremmo ri-aumentare ad almeno 600 il numero dei suoi membri, in questo contraddicendo esplicitamente lo spirito e la lettera dell’attuale riforma? Sarebbe ovviamente un riequilibrio numerico tra Senato e Camera, ma dubito di facile giustificazione all’opinione pubblica, una volta che sia passato il principio del "meno sono (i parlamentari) meglio stiamo (noi cittadini)".
Per quanto infine riguarda il tema del populismo, di che cosa convenga fare per non "dargliela vinta", chiederei per prima cosa "chi ormai non è populista?". Il Pd, alleato di governo e futuro alleato politico ed elettorale del M5S, non è forse diventato anch’esso populista, indipendentemente da come la pensa sul referendum? C’è forse qualche partito oggi, tranne forse Azione di Calenda, che possa dirsi immune da populismo? E’ evidente che questa parola ha sempre meno significato, in una notte in cui tutte le vacche sono nere. In un secondo momento, però, chiederei "ma ci credi per davvero al Sì, o lo fai solo per tattica?".
Una battaglia di solito non si regala quando si ha paura, o la certezza, di perderla; e così non si dà l’occasione all’avversario vincitore di accanirsi poi. A ben pensarci, sembra proprio questa consapevolezza di essere minoranza, la preoccupazione degli anti-populisti più focosi. La Carta diventa solo un dettaglio.
di MARCO D'EGIDIO