L’Isola di Pasqua è di sicuro uno dei posti più isolati al mondo, circondata dall’Oceano Pacifico meridionale a più di 3600 chilometri dalle coste cilene e a 2000 dalle Isole Pitcairn, famose per aver dato ospitalità agli ammutinati del Bounty.
Dall’accordo con il Cile del 1888 che si basa su rispetto, protezione, amicizia e sviluppo, i Rapa Nui hanno praticato una specie di autogoverno attraverso i capi famiglia e le tribù. Memore della catastrofe che ha quasi decimato in passato la popolazione, dal marzo scorso l’Isola di Pasqua ha affrontato l’epidemia di Covid-19 introducendo severe misure sanitarie che hanno impedito gli arrivi degli stranieri, che precedentemente sbarcavano dai quindici voli settimanali della compagnia aerea Latam dodicimila passeggeri, un numero ben superiore a quello degli stessi abitanti che si aggira sui diecimila individui.
Dal canto loro gli isolani hanno potuto vincere l’epidemia seguendo il costume ancestrale e sacro del Tapu, secondo il quale tutti devono restare nelle loro case e evitare ogni contatto sociale, trasgredendo il quale sarebbero stati puniti dagli spiriti degli antenati. Trasformata in paradiso turistico anche grazie all’attracco delle Grandi Navi, poco meno della metà dei suoi abitanti si dedica all’accoglienza dei visitatori, avendo aperto alberghi, bed&breakfast, ristoranti e bar.
La facile ricchezza portata dal turismo ha innescato un fenomeno di immigrazione dalle coste del Cile continentale e dalle isole polinesiane, che da tempo si sta cercando di argina- re, e ha favorito anche la diffusione dello spaccio di droga.
Un’economia giudicata debole da Pedro Pablo Edmunds Paoa, sindaco da più di vent’anni e personaggio conosciuto in tutto il Cile per la sua instancabile combattività a favore dell’isola. Più volte ha lanciato moniti contro il pericolo di snaturamento della cultura ancestrale rappresentato da un turismo di massa che invade le tranquille stradine di Hanga Roa, il capoluogo, che rischia di perdere la sua aria di tranquilla cittadina di campagna.
Per le 1.800 famiglie che si sono trovate da un giorno all’altro senza lavoro a causa dell’epidemia, l’amministrazione ha varato un piano per assumere 1.200 lavoratori, in maggioranza impiegati per immergersi nel mare circostante al fine di ripulire il fondo dell’oceano dai rifiuti, facendo ricorso al bilancio della municipalità. Altre risorse sono state impiegate nell’acquisto di sementi per la coltivazione di vegetali. A tale scopo sono stati destinati venti ettari di terra, mentre la coltivazione di verdure fresche da parte delle famiglie è stata consigliata dalla municipalità. Eliminata ogni possibilità di contagio, e con un occhio a quanto è successo alla Nuova Zelanda dove il coronavirus, prima debellato, ha fatto il suo ritorno, o alla vicina Tahiti, ora Rapa Nui pensa di riaprire al turismo secondo un paradigma che tiene conto dei cambiamenti che su di esso provocherà l’epidemia.
Un turismo non più tanto di massa e soprattutto focalizzato a collaborare con la sostenibilità dell’isola, prevedendo persino per chi vi arriverà l’obbligo di viaggiare con un bagaglio ridotto e portandosi alcuni alimenti.
Mentre i primi voli, una volta terminate le attuali restrizioni, sono previsti per ottobre, la speranza dell’amministrazione è che essi siano contenuti nel numero di quattro passaggi alla settimana senza più tornare ai tempi precedenti il coronavirus, che nel 2019 hanno riversato sull’isola 150mila turisti. Secondo quanto ha dichiarato Maeva Riroroco, direttrice della Camera del Turismo di Rapa Nui, esisterebbe anche un accordo con Latam in base al quale giungeranno uno due voli la settimana con non più di 150 passeggeri per osservare l’obbligo del distanziamento, dei quali non tutti saranno turisti. Se la storia passata dell’Isola di Pasqua costituisce un esempio di suicidio collettivo su cui l’umanità non deve smettere di riflettere, le sue sfide di sviluppo futuro lasciano ben sperare e intersecano le riflessioni che da più parti provengono dalle località che in massima parte vivono di turismo, in primo luogo dalle nostre città d’arte.
Claudio Madricardo