L'Italia che non c’è più. Quella che aveva accompagnato l’emigrazione italiana verso il Sud America è ormai del tutto scomparsa. Dopo aver perso l’ospedale italiano Umberto I°, la Dante Alighieri, ridotto all’osso l’insegnamento dell’italiano e la possibilità di avere un passaporto italiano, ora a Montevideo chiude anche questa autorevole voce giornalistica, un ponte tra vecchio e nuovo mondo. Il quotidiano in lingua italiana "Gente d’Italia", messo in piedi da Mimmo Porpiglia, abbandona la scena della comunicazione internazionale. Era una sorta di piccolo miracolo che resisteva in tempo di crisi e di manovre riduttive dello Stato italiano che oramai, a Montevideo, non esiste più. E dire che, una volta, le due sponde erano molto legate. L’arrivo doveva assomigliare il più possibile alla partenza. L’ombra del rimpianto spariva così dai volti attoniti di contadini che avevano affrontato l’oceano senza mai aver visto il mare prima. Forse il mare stava dentro di loro, un brontolio di umane proteste per ciò che la vita stava ordendo a loro discapito o vantaggio, a seconda dei punti di vista. Così Montevideo si formò come le città italiane da cui partivano "i barchi per la Merica". La città, infatti, fu arricchita, a diversi riprese, da maestri architetti e artisti italiani, cesellatori di forbite ricchezze urbanistiche e monumentali: Vittorio Meano e Gaetano Moretti per il Palacio Legislativo; Mario Palanti per Palazzo Savio inaugurato nel 1928; Carlo Zucchi e il Teatro Solis ideato nel 1841; Luigi Andreoni per l’Ospedale Italiano Umberto I del 1890; Giovanni Tosi e il progetto dell’Hotel National del 1885; gli scultori carraresi Giuseppe Livi, Carlo Piccoli e Giuseppe Del Vecchio e le loro marmoree statue al Cimitero Centrale. Nei vicoli della Ciudad Vieja ancora adesso si spande l’odore della fainà (la farinata ligure), si sente parlare la lingua di Dante, persino i dialetti, anche se siamo oramai alla terza o quarta generazione di emigrazione. La sagoma possente che si individuava in un baluginare di nebbie dopo 20-30 giorni di traversata poteva benissimo sembrare quella di Genova. La capitale uruguayana portava addosso proprio gli abiti del primo scalo di avvio, la metropoli ligure. Come la città della Lanterna aveva un porto adagiato con dolcezza nella conca protettiva di un bel promontorio, aveva alle spalle un centro storico di viuzze da intrigante angiporto, costruito su una piccola penisola, poi una grande piazza (Indipendencia) che assomigliava a Piazza della Vittoria (non a caso segnata dalla monumentale scalinata dedicata a Colombo) e quindi una via retta (oggi Avenida 8 de Julio) che saliva verso il culmine della città, esattamente come Via XX settembre. Le ramblas sul Rio de la Plata, poi, copiavano il sinuoso Corso Italia di Genova, ricco di eleganti palazzi, stabilimenti, locali notturni e belle spiagge. Qui i primi a sbarcare, in epoca coloniale, furono i genovesi per ovvie opportunità commerciali anche se si erano già affacciati navigatori, esploratori, gesuiti. L’idea stessa di Uruguay vide gli italiani primeggiare grazie a Giuseppe Garibaldi che è più eroe da queste parti che nella penisola. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento arriva quella che viene definita "immigrazione trasformatrice" che fornisce un’impronta decisiva all’Uruguay moderno considerato a lungo, prima della brutale fase dittatoriale, la "Svizzera americana". I presidenti della Repubblica sono in gran parte italo-uruguayani: José Serrato, Gabriel Terra, Alfredo Baldomir Ferrari, Raphael Addiego Bruno, Pedro Demicheli, Julio Maria Sanguinetti e anche José "Pepe" Mujica è di madre italiana, esattamente di Favale di Malvaro, Val Fontanabuona, provincia di Genova. Suo nonno era Antonio Cordano, nativo di quella zona e in particolare della frazione di Castello. La stampa italiana a Montevideo ha una lunga tradizione democratica, a partire dal 1841 quando Giovan Battista Cuneo fonda "L’Italiano" per passare poi a "Il Legionario Italiano", "L’Italia", "L’Italia Nuova" e altre autorevoli testate che hanno segnato la vita degli italiani in Uruguay. Persino la squadra di calcio più nota, il Peñarol di Montevideo, è stata fondata da emigranti provenienti di Pinerolo. Forse più che in Argentina, qui l’identità italo-uruguayana si definisce nei contorni di doppia cittadinanza, bilinguismo, integrazione, intreccio tra culture. Ma ora tutto questo sembra del tutto crollare, senza che l’Italia faccia nulla. Non a caso "Gente d’Italia" chiude al termine della Settimana della lingua italiana nel mondo. Quasi una beffa. Quando si spegne un giornale è come se una parte di noi se ne vada per sempre. Credo sia questo ciò che provano tutti gli uruguayani e gli argentini di origini italiana nel vedere scomparire "Gente d’Italia". Anche se io spero ancora che sia solo un arrivederci.
MARCO FERRARI