“Nell’emergenza le polemiche politiche vanno messe da parte”, ha dichiarato Silvio Berlusconi nella trasmissione televisiva Che tempo che fa su Rai 3. E ha aggiunto: “Serve uno sforzo comune a prescindere dagli schieramenti: il luogo è il Parlamento e l’occasione è la sessione di bilancio”. Prendiamolo in parola, esorta Giovanni Valentini in questo articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Nella speranza che maggioranza e opposizione possano collaborare per condividere un progetto civile di ricostruzione dell’Italia.
Al netto delle polemiche più o meno strumentali nei confronti del Governo, sui suoi ritardi e sui suoi errori, c’è un’amara verità che va enunciata esplicitamente. E cioè che, in questa emergenza sanitaria da covid ed economica, tutti i nodi nazionali sono venuti al pettine dell’epidemia. Vale a dire tutte le carenze, le inefficienze, le fragilità. Che il Paese si trascina dietro da troppi anni nei settori nevralgici dell’organizzazione sociale.
Dalla sanità all’energia - Nella sanità, innanzitutto. Come nella scuola e nell’università, nei trasporti pubblici, nella difesa dell’ambiente e nella produzione di energia. Sono questi i principali conti arretrati che siamo costretti oggi a pagare. E che ancor più di noi dovranno pagare i nostri figli e nipoti. Per fare fronte alla voragine dei debiti accumulati nella guerra al coronavirus.
È il prezzo di una modernizzazione mancata. Per colpa di una classe dirigente miope e avida. Di un ceto politico che s’è fatto “casta”. Cominciamo dalla frontiera della sanità, da cui medici e infermieri lanciano ora un appello nazionale. Che sembra un S.o.S. disperato: “Situazione fuori controllo, serve il lockdown”. Era già chiaro che l’epidemia impone l’organizzazione di un nuovo servizio sanitario territoriale, più prossimo ai bisogni della gente. Più pubblico e meno privato. Più moderno ed efficiente. E qui, il primo passo da compiere dovrebbe essere l’uscita della politica dalla sanità, dalle Asl e dalle cliniche universitarie.
Quanti ospedali, più o meno grandi, hanno chiuso da vent’anni a questa parte i governi o i governatori di centrodestra o di centrosinistra? Quanti reparti di terapia intensiva sono stati “tagliati” in nome dell’austerità? Da quanto tempo sapevamo che mancavano medici e infermieri? Ora il presidente del Consiglio informa che in questi ultimi mesi ne sono stati assunti 36 mila, ma evidentemente ancora non bastano.
Si visitano i malati di covid in auto - Siamo arrivati al punto di “tagliare” i ricoveri e di visitare i contagiati in auto o nelle ambulanze. Di bloccare e rinviare – a causa dei numerosi ricorsi – la pubblicazione della graduatoria per le scuole di specializzazione. Proprio nel momento in cui avremmo avuto più bisogno di immettere nuove competenze ed energie nei reparti di terapia intensiva. E ora dobbiamo fare appello alla responsabilità e alla disponibilità di anestesisti o rianimatori in pensione, per fronteggiare l’emergenza che minaccia di mandare in tilt gli ospedali.
Un recente studio dell’European Public Health Alliance, condotto su 30 Paesi (quelli dell’Unione europea più Gran Bretagna, Norvegia e Svizzera), ha documentato intanto che i danni sanitari prodotti dall’inquinamento ammontano a 166 miliardi di euro all’anno. Di cui 21 a carico dell’Italia. Ma, anche in questo caso, da quanto tempo diciamo e scriviamo che occorre cambiare il sistema dei trasporti. Spostando il traffico dal mezzo privato a quelli pubblici?
Ben venga, allora, la mobilità sostenibile, a patto però che non diventi in-sostenibile come rischia di accadere nel Far West dei monopattini elettrici. Che ormai sfrecciano impunemente sulle nostre strade e anche sui nostri marciapiedi. Al di fuori di qualsiasi regola o limite, mettendo a repentaglio l’incolumità dei poveri pedoni. Milano, infatti, ne sono stati sequestrati già duemila. E ben venga anche l’auto elettrica, a condizione che non pretenda di emulare i bolidi da corsa e implichi – soprattutto in città – una circolazione meno veloce e meno frenetica.
Scuola e università nell’emergenza covid - Prendiamo poi la scuola e l’università. Nessuno può mai pensare di abolire la didattica in presenza. Cioè lo scambio diretto, personale, fra insegnanti e studenti. Ma nell’era digitale, in cui i bambini imparano a usare il telefonino, l’iPad o il pc fin dai primi anni di vita, bisognerà pure integrare stabilmente i programmi scolastici e universitari con la didattica a distanza. Per ridurre i trasferimenti e magari incrementare i rapporti con il corpo docente. E altrettanto vale per lo smart working, il “lavoro intelligente” da casa o da remoto. In modo da renderlo più flessibile negli orari e meno alienante per i pendolari.
Chiudiamo la casistica post-Covid con l’energia, un settore trainante per l’economia, per la produzione e per l’ambiente. La transizione ecologica, dalle fonti fossili – inquinanti e in via di esaurimento – a quelle alternative e rinnovabili, era in corso da prima dell’epidemia. Ora diventa una scelta obbligata, un imperativo categorico, un impegno non più rinviabile.
L’esempio dell’Enel - Bene ha fatto perciò l’Enel, il nostro principale operatore, ad avviare la “decarbonizzazione” delle sue centrali. Per sostituirle con quelle eoliche o fotovoltaiche. E fornire magari energia pulita a idrogeno all’acciaieria dell’ex Ilva di Taranto. E ancor meglio farà ad accelerare per quanto possibile questo percorso, realizzando l’obiettivo di ridurre dell’80% le emissioni di gas serra entro il 2030.
“Il virus ha cambiato la nostra vita per sempre”, avvertì Papa Francesco all’inizio dell’epidemia nello scenario surreale della Basilica di San Pietro deserta. No, nulla sarà più come prima. Dovremo modificare il nostro modello di sviluppo e il nostro “sistema di vita”, come dice il premier Conte. Se nel prossimo futuro il mondo sarà migliore o peggiore, dipenderà da noi, dagli atti e dai comportamenti che fin da oggi cominceremo ad assumere.
di Giovanni Valentini