Si sono celebrati gli Stati generali (congresso) del Movimento Cinque Stelle, ma sembra che pochi se ne siano accorti. C'è la questione del Covid che tiene banco sulle prime pagine dei giornali e nei talk-show.
Tuttavia, l'evoluzione del Movimento, che nel bene e nel male ha occupato il centro della scena politica negli ultimi anni, avrebbe dovuto captare maggiore interesse. La domanda alla quale l'assise pentastellata – la prima nel suo genere – avrebbe dovuto rispondere è: dove andranno i Cinque Stelle? Al momento, non è che si capisca granché. Perché le anime separate del grillismo sono rimaste tali. Il congresso è stato un mirabile esempio di equilibrismo opportunistico: non hanno eletto alcun capo politico; il Movimento verrà affidato a un organo collegiale, il direttorio, dopo che, nelle prossime settimane, la base degli iscritti si sarà espressa attraverso il voto sulla piattaforma Rousseau; la dissidenza di Davide Casaleggio, figlio-erede dell'ispiratore del Cinque Stelle, Gianroberto, è stata messa in frigorifero in attesa di un compromesso con i nuovi vertici; la paventata rottura dell'ala movimentista capitanata da Alessandro Di Battista è stata neutralizzata dagli interventi di contenimento della testuggine governista, apparsa in rete con l'incarnato tranquillizzante del neo-democristiano Luigi Di Maio.
Vi è stato altro, ma tutto ciò che si è udito nel corso del dibattito è pura chiacchiera sull'universo mondo. Con l'eccezione, insidiosa, del "saluto" rivolto ai partecipanti dal premier peri-grillino, nel significato greco del prefisso "pèri" (intorno), Giuseppe Conte.
Di Battista vuole restare nel Movimento che ama. E chiede garanzie. Ma dal tenore dei diktat snocciolati è sembrato piuttosto un modo astuto per farsi mettere alla porta dai buttafuori della sicurezza interna senza dover vestire gli sgradevoli panni del capitano che abbandona la nave alla prima onda che l'ha fatta sbandare su un fianco.
Queste le condizioni non negoziabili per rimanere:
1) revoca delle concessioni autostradali ai Benetton;
2) presa di posizione chiara sul conflitto d'interessi tra sistema finanziario e gruppi mediatici e tra politica e finanza;
3) nessuna deroga alla regola del doppio mandato a parlamentari e a consiglieri regionali;
4) con qualsiasi legge elettorale, il Movimento deve presentarsi da solo alle prossime elezioni politiche;
5) non si deve appoggiare alcuna riforma elettorale che non ripristini le preferenze ai candidati;
6) meritocrazia nelle scelte delle professionalità per l'alta amministrazione dello Stato da certificare attraverso l'istituzione di un comitato di garanzia, di cui non facciano parte i membri pentastellati del Governo, che scriva regole cogenti su tutte le nomine da effettuare all'interno dei ministeri e delle partecipate di Stato e che entro i prossimi sei mesi pubblichi una lista delle nomine effettuate dai responsabili Cinque Stelle, corredate dei curricula e dei compensi percepiti dai nominati.
C'è una logica nelle richieste di Alessandro Di Battista: il ritorno allo stato originario di movimento d'espressione pura della volontà popolare, antropologicamente alieno dal profilo di partito cooptato dal sistema dominante. Il descamisado della politica nostrana tenta di spiegare l'esaurimento della spinta propulsiva dei Cinque Stelle con il pervertimento dei suoi valori costitutivi da parte degli esponenti che, una volta approdati al potere, ne hanno tradito lo spirito.
Benché generosa e accalorata, la sua perorazione pecca d'infantilismo politico. L'idea che una contraddizione di fondo possa essere risolta con un ritorno a un passato mitico appartiene a una interpretazione esoterica del presente, che mal si coniuga con la complessità delle società della post-modernità. Su questo terreno hanno buon gioco gli oppositori interni che liquidano la posizione movimentista con un comodo argomento: le idee si evolvono e anche le organizzazioni strutturate su quelle idee devono compiere correzioni di rotta per sintonizzarsi con i nuovi contesti.
Tuttavia, l'immaturità della proposta di Alessandro Di Battista non assolve coloro che, condotti al successo da un'offerta politica ed etica d'intransigente radicalismo, abbiano opportunisticamente dismesso le vecchie parole d'ordine e i proponimenti originari per conformarsi al modus agendi della vituperata politique politicienne. Al riguardo, l'intervento di Giuseppe Conte è paradigmatico. Il premier ha offerto, nel suo intervento di saluto, una giustificazione all'istintività naturale, prepolitica, che alberga nella comunità pentastellata e che spinge i suoi associati più ambiziosi, e spregiudicati, a difendere con ogni mezzo le posizioni personali conquistate.
Conte, nell'enfatizzare il coraggio di cambiare idea, declassa la categoria concettuale della coerenza a valore subordinato alla complessità della politica. Egli, però, dimentica un passaggio che non dovrebbe essere eluso: il patto con l'elettorato. Posto che un rappresentante del popolo in Parlamento non sia soggetto ad alcun vincolo nell'espletamento della sua attività di rappresentanza politica, tuttavia tale libertà dovrebbe bilanciarsi con il dovere di restituzione del mandato agli elettori perché siano essi a valutare, alla luce del suo mutato orientamento, se confermarglielo o destinarlo ad altri. Il premier glissa su tale aspetto allo scopo, denunciato puntualmente da Alessandro Di Battista, di restare al potere "a prescindere", facendo dell'atto di governo non un mezzo per raggiungere gli obiettivi programmati con l'assenso del corpo elettorale, ma il fine stesso dell'azione politica. Il contestatore Di Battista non la spunterà perché gli oppositori faranno muro all'idea di tornare indietro.
Cionondimeno, il destino del Movimento-partito è segnato ancor prima di svilupparsi. Gli interventi-passerella dello scorso fine settimana ne hanno messo a nudo la criticità: la mancanza di una credibile visione del futuro del Paese sostitutiva della sequela di stravaganze predittive del guru Gianroberto Casaleggio, prematuramente scomparso. Privo di un'elaborazione politico-culturale autoctona, il Movimento si va trasformando in qualcosa di già visto. Se il Cinque Stelle si colloca stabilmente nel centrosinistra rivendicando un'identità progressista, antipopulista, europeista, moderatamente "green", e riformista nella sfera dei diritti individuali e di cittadinanza, si sovrappone nell'offerta programmatica al Partito Democratico con l'inevitabile conseguenza che la perdita del tratto antipolitico originario ne annulla la ragion d'essere. D'altro canto, a cosa servirebbe un partito fotocopia? Ad assicurare status sociale ad alcuni personaggi che ricavano profitto personale a stare nella stanza dei bottoni? Francamente, come prospettiva per migliorare gli standard qualitativi della classe di governo, non è gran cosa.
Il tramonto pentastellato ha restituito la nuda realtà: questo tempo storico si evolve convintamente nel solco del bipolarismo, tra una destra e una sinistra distinte e confliggenti. L'ipotesi avventuristica della "terza via Cinque Stelle", generata per partenogenesi dalla crisi della rappresentanza politica maturata in uno scenario di contesto post-ideologico, è naufragata. La debolezza strutturale del grillismo, coniugata alla superficialità dei suoi argomenti identitari, ne rende la parabola simile a quella di un'altra meteora movimentista transitata nel firmamento della politica: il Fronte dell'Uomo Qualunque, fondato nel 1944 da Guglielmo Giannini.
Anch'esso, come il Cinque Stelle, da movimento si trasformò in partito. Come il Cinque Stelle, voleva essere la risposta sistemica all'istanza antipolitica emergente dall'opinione pubblica. Visse di improvvisi, folgoranti, successi elettorali, di rovinose scissioni e di indigeste alleanze, fino alla sua definitiva estinzione. Non ci vorrà molto che ci si dimenticherà di Beppe Grillo politico e del grillismo, come l'Italia del boom economico ha obliato ilqualunquismo del giornalista e commediografo Guglielmo Giannini. Che coincidenza! Anch'egli un teatrante.
di Cristofaro Sola