Al termine di una lunghissima giornata, i 538 'grandi elettori' dei 50 Stati americani e della capitale mettono il sigillo sulla vittoria di Joe Biden e di Kamala Harris, mentre Donald Trump annuncia via Twitter le dimissioni prima di Natale del ministro della giustizia William Barr, caduto in disgrazia dopo aver negato i brogli di massa nell'election day.
Un rito in genere puramente cerimoniale quello del collegio elettorale, se non fosse che Trump continua a denunciare elezioni fraudolente e a considerare il suo rivale un presidente illegittimo anche dopo che una Corte costituzionale a maggioranza conservatrice ha respinto il suo ultimo ricorso.
I grandi elettori, il cui numero varia in base alla popolazione, si sono riuniti in differenti fasce orarie per votare secondo il risultato del voto popolare nel loro Stato, come prescrivono le leggi, nonostante la possibilità di qualche 'infedele': 306 per il ticket dem, 232 per quello repubblicano, con un quorum necessario per entrare alla Casa Bianca di 270.
Quorum che 'Joe e Kamala' hanno raggiunto verso sera dopo il voto della California e dopo che nessuno dei cinque Stati più contesi aveva riservato sorprese o defezioni.
In alcuni casi le operazioni si sono svolte sotto alta tensione, come in Michigan, uno degli Stati più contesi, dove il parlamento è stato chiuso per "credibili minacce di violenza" arrivate ai congressmen di entrambi i partiti. In Wisconsin invece la Corte suprema ha respinto per la seconda volta il tentativo di Trump di invalidare oltre 200 mila voti.
"Ora è tempo di girare pagina. Di unire. Di riconciliarsi. Sarò il presidente di tutti gli americani", ha detto Biden nelle anticipazioni del suo discorso dopo il voto. "Adesso sappiamo che nulla, neppure una pandemia o un abuso di potere, può estinguere la fiamma della nostra democrazia", ha proseguito evocando il comportamento di Trump. "In questa battaglia per l'anima dell'America, la democrazia ha prevalso. Noi il popolo abbiamo votato. La fede nelle nostre istituzioni ha tenuto. L'integrità delle nostre elezioni è rimasta intatta", ha aggiunto. Il presidente e i suoi più stretti alleati hanno ora un'ultima sede dove contestare l'esito delle elezioni, ma praticamente senza speranze: il Congresso, che il 6 gennaio conterà formalmente a camere riunite i voti del collegio elettorale.
I nuovi parlamentari potranno sottomettere obiezioni scritte che però saranno valutate solo se co-firmate da almeno un membro di ciascuna Camera. Altrimenti resteranno un puro atto di protesta, come successe nel 2017 quando diversi deputati dem contestarono la vittoria di Trump in alcuni Stati a causa delle interferenze russe ma Hillary Clinton aveva già ammesso la sconfitta e nessun senatore del partito si unì all'iniziativa.
Se invece ci sarà una 'coppia' di esponenti delle due Camere, la seduta plenaria verrà interrotta e ciascuna Camera discuterà l'obiezione per un massimo di due ore, prima di votare se ribaltare il risultato dello Stato in questione. Ma per ribaltarlo davvero occorrerà il consenso di entrambi i rami del Parlamento, cosa che non succede dalla cosiddetta epoca della Ricostruzione, il periodo successivo alla guerra civile americana dal 1865 al 1877.
Tanto più che la Camera è nelle mani dei dem, mentre le sorti del Senato - ora controllato dai repubblicani - sono appese ai due ballottaggi del 5 gennaio.
Inoltre per ora nessun senatore del Grand Old Party si è impegnato pubblicamente a fare tandem con i deputati pro Trump più battaglieri, come Mo Brooks dell'Alabama. In questo caso però il Congresso sarebbe costretto ad un dibattito che, al di là dello scontato esito finale, lascerebbe un'ombra su Biden e sulla fiducia nel processo elettorale, segnando anche il futuro corso del partito.
Il ruolo più imbarazzante sarà quello di Mike Pence, che nella sua qualità di presidente del Senato dovrà dichiarare Biden vincitore, come avevano già fatto lo stesso Biden con Trump e Al Gore con George W. Bush: il vicepresidente dovrà scegliere tra la lealtà a Trump, che non sopporta l'etichetta di 'loser', e i suoi obblighi costituzionali. L'unica via di fuga sarebbe lasciar presiedere la sessione al senatore repubblicano Charles Grassley, presidente del Senato pro tempore, ruolo riservato al membro del partito di maggioranza con maggiore anzianità di servizio.
In ogni caso The Donald è intenzionato ad annunciare la sua candidatura per il 2024 anche se, come riporta Politico, ha lasciato intendere ai suoi alleati che potrebbe fare marcia indietro tra due anni se fiuterà che sarà difficile tornare a vincere. Ma intanto vuole congelare la corsa di eventuali rivali e mantenere l'attenzione su di sé, per difendere il suo brand aziendale, pagare meglio i suoi debiti e screditare gli inquirenti delle indagini contro di lui e la sua famiglia.