di Antonio Cianciullo
In questo momento a preoccupare l’opinione pubblica sembra essere la variante inglese del Covid-19. Ma è veramente questo il problema principale da affrontare? O, come è successo per la crisi climatica, ci sono altri campanelli d’allarme che squillano inascoltati? Questa volta a parlare di una minaccia ignorata non è uno scrittore come David Quammen (l’autore di Spillover, il libro che ha anticipato le cronache del 2020), ma l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (Ipbes), massima autorità scientifica in tema di natura e biodiversità. Il rapporto rivela che ci sono fino a 800mila virus (le stime vanno da 631.000 a 827.000) muniti della particolare capacità di infettare il genere umano.
Abilità sviluppata nel tempo, tanto che quella da Covid-19 è la sesta epidemia globale dopo la micidiale spagnola del 1918. E le cause non sono un mistero. “Le attività umane che producono il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità producono anche il rischio di pandemia attraverso i loro impatti sull’ambiente: cambiamenti nel modo in cui usiamo la terra; espansione e intensificazione dell’agricoltura; commercio, produzione e consumo insostenibili che aumentano il contatto tra fauna selvatica, bestiame, agenti patogeni e persone”, afferma Peter Daszak, presidente di Ipbes.
Perché, pur disponendo di una diagnosi precisa, non riusciamo a passare alla cura? “Si tratta di smontare meccanismi complessi, costruiti in tempi in cui ciò che oggi appare evidente lo era meno”, risponde Lorenzo Ciccarese, rappresentante italiano di Ipbes e responsabile dell’area Conservazione biodiversità terrestre di Ispra. “Prendiamo ad esempio la Cina. Ci sono stati programmi di sviluppo rurale della provincia profonda che hanno portato allo sviluppo di mercati di animali come lo zibetto o il pangolino, usato sia per la carne che per le scaglie della corazza impiegate nella medicina tradizionale”.
Questi mercati di animali vivi fanno da cerniera tra i virus, spesso ospitati nella foresta pluviale in cui la presenza umana è sempre più invadente, e le città. Sono chiamati wet market: gli animali spesso vengono macellati sul posto e le possibilità che il virus faccia il salto di specie attraverso un contatto di sangue accidentale, magari favorito da un’escoriazione alla pelle di uno dei lavoratori del macello, sono consistenti.
“Il percorso del virus dai pipistrelli agli animali dei mercati orientali e all’uomo è quello che viene segnalato con più evidenza”, continua Ciccarese. “Ma il salto di specie può funzionare anche con un meccanismo che gira in senso inverso: da un uomo a un animale. Forse è questa la strada che ha permesso al Covid-19 di arrivare agli allevamenti europei di visoni”.
E già, perché l’idea di una responsabilità confinata alle incerte regole di sicurezza dei mercati orientali si scontra contro l’evidenza dei fatti. La Danimarca ha dovuto sterminare la sua intera popolazione di visoni per prevenire la diffusione del Covid-19. E anche l’Italia ha chiuso fino a febbraio gli allevamenti di visoni.
“Il punto è che circa il 60% di tutte le malattie infettive negli esseri umani sono zoonotiche, cioè sono legate al contatto con gli animali: una percentuale che sale al 75% se esaminiamo le malattie infettive emergenti”, continua Ciccarese. “In particolare sono gli allevamenti intensivi a fare da ponte epidemiologico tra fauna selvatica e infezioni umane. Gli animali presenti in queste strutture, selezionati per caratteristiche di produzione piuttosto che per resistenza alle malattie, non hanno il grado di diversità genetica che facilita la resistenza alle infezioni”.
Se pensiamo a come stiamo organizzando la nostra società per frenare la corsa della pandemia, vediamo che gli allevamenti intensivi sono esattamente all’opposto dell’idea di distanza di sicurezza a cui il coronavirus ci ha costretto. Rappresentano un universo che spesso è talmente affollato da non lasciar spazio a movimenti naturali e il frequente abuso di antibiotici è un segnale di rischio che non andrebbe trascurato.
Visto che, secondo i dati del rapporto, il costo della prevenzione delle pandemie è cento volte inferiore al costo della risposta all’emergenza provocata dai virus, sarebbe utile mettere a fuoco una strategia di risposta che vada al di là del confinamento di Covid-19: difficile pensare di fronteggiare l’assalto di migliaia di virus mutanti puntando solo sui vaccini.
Ecco cosa suggerisce Ipbes. Primo: difendere la natura come cassaforte di biodiversità allargando sensibilmente le aree protette e riducendo lo sfruttamento insostenibile delle zone a rischio. Secondo: ridurre il contatto tra fauna selvatica, bestiame e esseri umani. Terzo: rafforzare le norme contro il commercio illegale della fauna selvatica.