Dopo che Goffredo Bettini, da giorni, ripeteva «se Conte non trova i responsabili l'alternativa è il voto», l'allarme dentro il Pd è suonato forte quando il vicesegretario Andrea Orlando, giovedì sera a Piazza pulita, ha parlato di «elezioni vicine». A quel punto l'arcipelago dem che non vuole tornare al voto ha capito che non si trattava solo di una moral suasion per spingere i "responsabili" a venire allo scoperto, ma di una opzione che davvero al Nazareno stanno valutando seriamente.
E COSÌ È PARTITA la contraerea, proprio dal Senato dove la partita per la sopravvivenza è più in bilico. «L'Italia ha bisogno di risposte urgenti. Nessun ammiccamento diretto o indiretto alle elezioni anticipate, come arma finale, può essere una mossa politica utile e nell'interesse del Paese in questo momento», scrivono quattro senatori guidati dal vice capogruppo Gianni Pittella (con lui anche Francesco Verducci, Tommaso Nannicini e Dario Stefano). «Il Pd rilanci le ragioni di un governo all'altezza delle risposte che si aspettano gli italiani, parlando con tutti per trovare la quadra di un programma di legislatura».
STA PROPRIO IN QUEL «parlando con tutti» la faglia che, giorno dopo giorno, mentre la crisi è sempre più in stallo, sta dividendo i dem. Perché il problema, gira e rigira, è sempre Matteo Renzi, che ieri ha nuovamente offerto la disponibilità di Italia Viva agli ex alleati per un «patto di legislatura».
IL TOTEM «MAI PIÙ CON RENZI», condiviso da Zingaretti oltre che da Conte e dai big del M5s (soprattutto Di Battista), non convince un fronte (in gran parte composto da ex renziani) che va dai sindaci Giorgio Gori e Dario Nardella al presidente dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini, passando per il capogruppo in Senato Andrea Marcucci (che definisce il voto «inopportuno») e il suo omologo della Camera Graziano Delrio che dice: «Il Pd ha sempre detto due cose: no a una crisi al buio, no a elezioni».
Spiega Verducci: «Il Pd non può muoversi per favorire le elezioni, questa opzione non può neppure essere contemplata». «E del resto Zingaretti non ne ha mai parlato, all'assemblea dei senatori ha ribadito che dobbiamo sostenere il governo e allargare la maggioranza. Bene, noi restiamo su questa linea». E Renzi? «Ha commesso un grave errore e deve pagare un prezzo politico, ma non possiamo aggiungere al suo un altro errore madornale», dice Verducci. «Se apriamo agli europeisti uno spazio con Renzi va tenuto aperto, non si può dire mai più con lui».
Delrio è più prudente: «Non metto mai veti, ma le ferite si rimarginano col tempo». «Serve un Conte ter allargando la maggioranza ma senza escludere Italia Viva», insiste Gori.
IL FLOP DELLA CACCIA ai responsabili in Senato, dopo giorni passati a vuoto, fa uscire allo scoperto i malumori dentro il Pd. L'idea è quella di un Conte ter, di «una nuova squadra », come dicono Gori e il presidente dell'Emilia-Romagna Stefano Bonaccini.
Nessuno tra loro chiede un passo indietro a Conte, ma un nuovo governo sì. E del resto ieri anche Bruno Tabacci, da giorni cercatore di responsabili, ha spiegato che «un rimpasto non basta». Un assist ai piddini che vogliono riaprire il dialogo con «Matteo», convinti di riportare l'orologio a prima del 13 gennaio, quando Renzi ha annunciato in diretta le dimissioni delle ministra di Italia Viva. A quando cioè la prospettiva comune di Pd e renziani era quella di un nuovo governo, con squadra e programmi rinnovati.
POI, PERÒ, È ARRIVATO lo scontro in Aula del 19 gennaio, e i rapporti tra il premier e il rottamatore paiono davvero chiusi. Ma nel Pd la battaglia, per ora in sordina, su cosa fare se Conte non riuscirà a rafforzare la maggioranza è solo all'inizio.
E se intorno a Zingaretti, tra i giovani della sua segreteria tutti fuori dal Parlamento, cresce il tam tam per un ritorno alle urne desiderato già dall'estate del Papeete, il fronte contrario non sta a guardare. Sapendo di poter contare su una vasta sponda tra i tanti peones del M5s. «Il voto metterebbe in secondo piano i bisogni del paese», ricorda Delrio.
Dalle urne, con le liste compilate dall'attuale segretario, uscirebbe un Pd rivoluzionato: molti parlamentari scelti da Renzi nel 2018 resterebbero a casa, gli attuali capigruppo perderebbero i galloni. Molto meglio ricucire con Matteo. Lui, del resto, alle urne non ha mai creduto. E ai suoi senatori ripete: «Lasciamoli decantare altri due o tre giorni...».
di Andrea Carugati