Il leader del Movimento 5 Stelle continua a ripetere che intende stipulare “con chi ci sta” un contratto di governo “alla tedesca”. Espressione che certamente avrà colpito l’immaginazione degli ascoltatori, soprattutto degli elettori “grillini”, come si usa dire. Che uomo colto e informato il nostro Luigi Di Maio, avranno pensato, conosce perfino quello che accade in Germania, anzi cosa è accaduto tra i partiti che a Berlino hanno dato vita ad un governo di coalizione dopo sei mesi di intenso dibattito, necessario perché CDU e SPD, gli ex democristiani e gli ex socialdemocratici, si erano sparati ad alzo zero nel corso di una campagna elettorale che non aveva risparmiato critiche feroci reciproche. Anche se avevano governato insieme nei precedenti cinque anni.
Cos’è il contratto “alla tedesca”, dunque? È come l’accordo di governo “all’italiana”, un documento nel quale i partiti che si apprestano a formare il governo mettono “nero su bianco”, come ripete Di Maio, i punti programmatici che intendono realizzare. Naturalmente, essendosi confrontati nel corso della campagna elettorale con toni accesi con riferimento alle rispettive piattaforme programmatiche quel “contratto”, cioè quell’accordo, individua ipotesi che entrambi ritengono necessarie per governare insieme, certamente rinunciando ognuno a qualcosa. Altrimenti sarebbe uno di quei contratti che in diritto si chiamano “per adesione”, come nel caso delle assicurazioni.
“Prendere o lasciare” in politica non è possibile. Nessun partito accetta di sottoscrivere il programma di un’altra forza politica. Mai, meno che mai al termine di una campagna elettorale in cui le contrapposizioni sono state dure, assistite da vivaci espressioni polemiche, spesso al limite dell’insulto. Alla luce di queste considerazioni, che ogni cittadino elettore ben comprende, non è possibile condividere la tesi di Di Maio, apprezzabile solamente da chi è digiuno di politica ma anche privo di buon senso. Perché in aggiunta al riferimento al contratto Di Maio precisa che fra chi lo stipula non si realizza un’alleanza.
Qui non si può scherzare con le parole e con i concetti. Coloro che stipulano un contratto politico in vista della formazione di un governo sono alleati. E da nessuna persona di buon senso di fronte ad un accordo tra partiti che “ci mettono la faccia”, come si usa dire, con ministri e sottosegretari, verrebbe in mente di ritenere che quei partiti non siano legati da un’alleanza, sia pure temporanea, sia pure riferita ad un minimum da fare insieme. Sfugge, inoltre, a Di Maio, in questa sua visione del “contratto” che il governo nel suo insieme ed i singoli ministri, al di là dei temi fondamentali che identificano l’oggetto dell’accordo, ogni giorno producono centinaia di provvedimenti di vario genere, regolamenti ministeriali di attuazione delle leggi, decreti di approvazione di contratti, nomine di dirigenti e di rappresentanti delle rispettive amministrazioni in enti ed organismi vari.
Questi provvedimenti presuppongono un idem sentire complessivo rispetto all’attività di governo. In assenza, qualunque sia il governo che si può al momento immaginare con al centro il Movimento 5 Stelle che ha portato in Parlamento brava gente spesso senza alcuna esperienza e cultura giuridica è inevitabile un conflitto permanente difficilmente contenibile da parte dei Presidenti dei Gruppi parlamentari. Insomma, per governare occorre una cultura di governo, cioè la capacità di gestire la somma delle attività che i ministeri, a Roma e nelle regioni, producono, che non sono riconducibili ad uno schema semplificato.
Neppure se il contratto fosse fatto di alcune centinaia di pagine, come si sente dire del contratto “alla tedesca”. L’Amministrazione italiana è titolare di una miriade di funzioni
che possono essere ricondotte solamente sotto un ombrello di saggia cultura giuridica e politica.