Il 21 febbraio 2020, esattamente un anno fa, veniva ufficialmente identificato nel paese lombardo di Codogno il primo caso italiano di Covid-19, successivamente definito “paziente 1”. Da quel giorno, nell’incredulità generale, il virus è rapidamente dilagato nel nostro Paese cambiando radicalmente le nostre esistenze.
Il periodo di rigido lockdown disposto tra marzo e maggio per contenere la pandemia ha ridefinito in modo drastico e forzato gli stili di vita degli italiani. L’abitazione privata è improvvisamente divenuta l’unico luogo sicuro, la maggioranza dei negozi sono stati chiusi e, per i pochi aperti, gli ingressi sono stati contingentati – con lunghissime file soprattutto davanti ai supermercati –, scuole, ristoranti e palestre, tutti i luoghi della cultura e dell’intrattenimento sono stati chiusi, spesso a tempo indeterminato.
La vicinanza con il prossimo è diventata una minaccia da evitare il più possibile: è stato un anno di mascherine e distanziamento, quel metro che ci impedisce di abbracciarci, di scambiarci una stretta di mano, che ci ha tolto il piacere di stare in compagnia, mentre ci ripetiamo che “torneremo ad abbracciarci”.
Sono dunque forzatamente mutati gli stili di consumo, il modo di lavorare (con il dilagare dello smart working), le modalità di comunicazione nella quotidianità ed il rapporto con la Rete, sempre più protagonista ed indispensabile nelle nostre vite, l’approccio con l’informazione(l’incertezza generata dalla pandemia ha condotto ad un’impennata degli ascolti televisivi, soprattutto relativamente a Tg e programmi d’informazione). Il mondo medico, infine, è diventato un punto di riferimento, costantemente sotto i riflettori, tra comportamenti eroici e profonde contraddizioni, nel quadro di un Sistema sanitario nazionale portato sull’orlo del collasso, del quale sono emersi valori e carenze.
Per esplorare, dando voce in modo diretto agli italiani, in che modo la vita nel nostro Paese sia mutata nel corso di questo anno senza precedenti e quale sia stato l’impatto sui cittadini, l’Eurispes ha realizzato un’indagine su un campione composto da 2.063 cittadini, rappresentativo della popolazione italiana. La ricerca è stata realizzata attraverso la somministrazione diretta di un questionario semistrutturato, distribuito nel periodo compreso tra novembre 2020 e gennaio 2021.
Consumi e nuove abitudini
L’impatto della pandemia sulle abitudini di consumo e gli stili di vita. Il 21,9% degli italiani afferma di aver ordinato per la prima volta la spesa a domicilio dopo marzo 2020, ovvero dopo l’esplosione della pandemia da Covid-19. L’abitudine di ordinare la cena o altri pasti a domicilio era già abbastanza diffusa (il 28,6% lo faceva anche prima della pandemia), ma da marzo il 16,8% lo ha fatto per la prima volta.
Il 13,1% ha ordinato per la prima volta farmaci a domicilio, complici le file all’ingresso delle farmacie ed i timori relativi al rischio di contagio.
Più affermato era l’utilizzo dei nuovi strumenti tecnologici a supporto della comunicazione: il 45,2% degli intervistati era già solito comunicare con amici/parenti tramite videochiamata; con la diffusione del virus quasi un terzo lo ha fatto per la prima volta (30,7%). L’11,1% del campione ha acquistato proprio in questo periodo strumenti per la cucina (robot da cucina, macchine per il pane, pentole professionali, ecc.), come ben testimoniato dal boom di cuochi più o meno improvvisati che hanno così impiegato il tempo libero e compensato l’impossibilità di mangiare fuori casa.
Il 13,4% degli italiani ha acquistato un abbonamento a piattaforme streaming (Netflix, Infinity, ecc.) (il 36,3% già lo aveva). E infine la decisione di acquistare/noleggiare strumenti per fitness domestico ha riguardato una quota non trascurabile del 14% (il 12,2% ne era già in possesso).
Nonostante le restrizioni della pandemia l’e-commerce resta “sconosciuto” per tre italiani su dieci. Tra ritardi nell’accesso alla Rete veloce in alcune aree del territorio ed il persistere di una quota di analfabetismo digitale in una parte non trascurabile della popolazione (specialmente tra gli anziani), rimane rilevante la percentuale di cittadini italiani completamente estranei al mondo dell’e-commerce: il 29,1% riferisce di non fare mai acquisti online.
D’altra parte, con divese intensità, fare acquisti online sta diventando per molti una consuetudine: il 18,2% del campione fa acquisti online raramente, il 25,9% qualche volta, mentre il 16,3% spesso ed il 10,5% abitualmente.
Gli over 64 sono l’unica fascia d’età nella quale prevalgono coloro che non fanno mai acquisti attraverso la Rete (59%).
Online si comprano soprattutto abbigliamento, libri, tecnologie. Gli articoli per i quali è più diffusa l’abitudine di acquisto in Rete sono: l’abbigliamento (solo un terzo, il 33,7%, non lo ha mai fatto), i libri (il 34,5% mai), le apparecchiature tecnologiche (il 36,2% mai), oggetti per la casa (39,6% mai), film/serie Tv tramite piattaforma (41,9% mai). I prodotti per i quali si registra invece la minore propensione all’acquisto online sono le medicine (il 79,4% non le ha mai comprate in Rete), le bevande (71,5%), i corsi online (67,5%) e, in generale, i prodotti alimentari(63,8%). A seguire gli articoli di profumeria/estetica (il 57,1% non li compra mai online).
Un divario decisamente notevole tra le generazioni emerge rispetto all’acquisto online di abbigliamento: solo il 16,8% dei 18-24enni non lo fa, contro il 24,4% dei 25-34enni, il 27,3% dei 35-44enni, il 37,3% dei 45-64enni, ed il 52,8% degli ultrasessantaquattrenni, unica categoriale nella quale prevalgono i non acquirenti. Per le apparecchiature tecnologiche (Tv, smartphone, tablet, ecc.), per i libri, per i prodotti audiovisivi, gli acquirenti sul Web aumentano all’abbassarsi dell’età; in tutti i casi, gli acquirenti sono meno numerosi tra i soggetti più maturi.
Come cambiano gli spostamenti: meno mezzi pubblici. Un quarto degli intervistati afferma di aver evitato i mezzi pubblici (25,4%) sin dall’inizio dell’esplosione dell’emergenza sanitaria. Il 9% ha iniziato per la prima volta a spostarsi in bicicletta, il 7,4% in monopattino elettrico – percentuali non trascurabili se si considerano le difficoltà legate alle condizioni climatiche, alle caratteristiche di molte città, per qualcuno anche ai limiti fisici. Relativamente agli spostamenti più lunghi, infine, si registra quasi un terzo dei cittadini (30,9%) che ha iniziato ad evitare treni ed aerei – quota che salirebbe se si considerasse soltanto chi utilizzava questi mezzi (alcuni, per scelta o stile di vita non viaggiavano comunque su treni ed aerei).
Nel periodo del primo drastico lockdown sono stati gli adulti, più dei ragazzi, a scoprire le videochiamate per comunicare con parenti ed amici che non potevano incontrare di persona: il 33,7% dei 45-64enni lo ha fatto per la prima volta, a fronte del 23,1% dei 18-24enni, più avvezzi a questi strumenti.
I ragazzi, più spesso degli altri, hanno acquistato o noleggiato per la prima volta strumenti per il fitness domestico (circa il 20%), mentre l’acquisto di apparecchi per la cucina è stato più frequente tra i 35 ed i 64 anni.
Riguardo alle piattaforme a pagamento per lo streaming, il 18,3% dei giovanissimi ha iniziato ad usufruirne (oltre la metà dei 18-34enni era già in possesso di un abbonamento); è degno di nota anche il 15,9% di 45-64enni che si sono abbonati per la prima volta in questo periodo, avvicinandosi ad una nuova modalità di fruizione. La percentuale più contenuta di nuovi abbonati riguarda, prevedibilmente, gli anziani (9,3%), che, seppur più lentamente, dimostrano un graduale avvicinamento ai moderni canali di intrattenimento.
Sul fronte degli spostamenti e dei viaggi, i più giovani mostrano, più delle altre fasce d’età, di aver mutato le proprie abitudini: ben il 36,7% dei 18-24enni riferisce di aver iniziato ad evitare i mezzi di trasporto pubblico. Come alternativa e con lo stimolo del Bonus 2020, il 13,6% dei giovanissimi ha iniziato a spostarsi in bicicletta, il 13,6% in monopattino elettrico.
Considerando, infine, i viaggi in treno e in aereo, sono numerosi coloro che hanno iniziato a rinunciarvi, soprattutto tra i 18 ed i 44 anni (la parte più dinamica della popolazione): il 36,7% dei 18-24enni, il 34,1% dei 25-34enni, il 36,1% dei 35-44enni; la quota rimane comunque vicina ad un terzo tra i 45-64enni (32,8%) e si attesta al 22,4% dai 65 anni in su.
Abitudini cambiate e non più abbandonate. Oltre un italiano su 4 (25,9%) continua ad ordinare la spesa a domicilio anche dopo la fine del lockdown primaverile, l’8,7% con la stessa frequenza, il 17,2% con minor frequenza. L’ordinazione di farmaci a domicilio continua ad essere utilizzata dal 16,4% degli intervistati (il 10,2% con minor frequenza), mentre il 9,8% ha smesso dopo il lockdown. Il 37,2% degli italiani continua ad ordinare pasti a domicilio, il 14,5% con la stessa frequenza del periodo del lockdown, il 22,7% meno spesso. Il 66,1% continua a videochiamare amici e parenti, il 31,5% con la stessa frequenza, il 34,6% meno spesso rispetto ai mesi della chiusura totale.
Solo il 5,6% ha smesso dopo il lockdown di fruire di piattaforme per la visione di film e serie Tv. Sul piano della mobilità urbana, il 30,1% dei cittadini dichiara di continuare a spostarsi in bicicletta (il 18,1% con la stessa frequenza del lockdown, il 12% con minor frequenza; solo il 6,6% ha smesso). Oltre un decimo del campione continua ad utilizzare il monopattino elettrico (11,8%; il 6% con la stessa frequenza; mentre il 5,2% ha smesso alla fine del lockdown).
Smart working: una nuova organizzazione del lavoro?
Prima del 2020 lo smart working era ancora poco diffuso in Italia, regolato da una legge di recente approvazione (legge 81 del 2017). Le resistenze sono di natura culturale, ma anche legate all’arretratezza del nostro Paese nel campo della digitalizzazione.
Un nuovo modo di lavorare. Tra coloro che lavorano, quasi la metà (49%) lo ha fatto in smart working dall’inizio dell’emergenza sanitaria: il 22,8% sempre o per un lungo periodo, il 26,2% occasionalmente/con turnazione/per un breve periodo. Il 4,9% dei lavoratori dichiara che già lavorava in questa modalità prima della pandemia, mentre il 46,1% risponde negativamente.
L’analisi dei dati per area geografica di residenza mette in luce situazioni differenti: la pandemia ha portato a lavorare a distanza soprattutto i residenti al Sud (il 31,8% sempre o per un lungo periodo, il 25,2% in modo temporaneo) ed al Nord (al Nord-Ovest 24,2% sempre e 28,4% temporaneamente; al Nord-Est 22,4% e 26,5%). Lo smart working ha dunque coinvolto la maggioranza dei lavoratori al Sud ed al Nord-Ovest, mentre la quota più contenuta si registra nelle Isole, dove il 12,8% già lavorava in questa modalità ed il 50% non la ha adottata neppure con l’arrivo della pandemia. Intermedia la posizione dei lavoratori del Centro Italia: 4 su 10 hanno iniziato a lavorare in smart working (13,8% sempre, 27% temporaneamente/occasionalmente), il 55% non lo ha fatto neppure in emergenza.
La professione svolta incide, inevitabilmente, sulla possibilità o meno di lavorare a distanza. Con l’emergenza sanitaria hanno usufruito dello smart working la maggioranza degli impiegati (66,2%), dei dirigenti/direttivi/quadri (65,1%, ben il 46,3% sempre o per un lungo periodo), dei liberi professionisti (62,4%). Valori non trascurabili riguardano lavoratori autonomi (45,6%), imprenditori (41,8%) e Forze dell’ordine/militari (37,5%). Le percentuali più basse si trovano, comprensibilmente, tra operai (12,4%) e commercianti (13%). Lavoratori autonomi e liberi professionisti fanno registrare le quote più alte di soggetti in smart working già prima dell’inizio della pandemia (rispettivamente il 12,6% ed il 10,3%).
Anche a distanza prevale il “modello ufficio” con orari fissi di attività. Nella maggior parte dei casi il lavoro a distanza è stato organizzato sulla base della presenza negli orari prefissati (54,4%), in quasi un terzo per obiettivi (30,2%), mentre nel 15,4% dei casi sulla base della reperibilità senza limiti fissi di orario.
Una modalità mista presenza-distanza, per il futuro. Interrogando coloro che hanno sperimentato lo smart working sulle loro preferenze per il futuro, emerge come la maggioranza, potendo scegliere, quando sarà terminata l’emergenza sanitaria vorrebbe alternare lavoro da casa e lavoro in presenza (53%); il 28% vorrebbe interrompere lo smart working, mentre il 19% vorrebbe continuare a lavorare sempre da casa.
Prendendo in considerazione la tipologia famigliare, i dati indicano che tra i monogenitori con figli è più elevata della media la percentuale di chi vorrebbe continuare a lavorare sempre in smart working (25%); tra le coppie con figli la quota si attesta al 20,1%, tra le coppie senza figli al 18,1%, mentre tra le persone che vivono da sole risulta più bassa (13,6%).
Un’esperienza complessivamente positiva. Il 66,2% di chi ha lavorato in smart si dice soddisfatto rispetto all’organizzazione del lavoro, il 62% riguardo alla gestione dei tempi e degli orari. Più della metà del campione si è inoltre trovato bene nel coordinamento con i colleghi (57,5%), con i superiori (56,4%) e con il carico di lavoro (56,2%). Se prevalgono le esperienze positive, occorre però sottolineare la percentuale non trascurabile di lavoratori a distanza che si sono trovati in difficoltà; in particolare, il 18,7% si dice per nulla soddisfatto del coordinamento con i superiori, il 18,3% del carico di lavoro. I monogenitori con figli (78,6%) e le coppie con figli (62,7%) sono i più soddisfatti dello smart working in relazione alla gestione dei tempi e degli orari.
In smart working la netta maggioranza dei lavoratori ha gestito meglio gli impegni familiari e domestici (60%) e si è sentita più libera (58,2%). D’altra parte, si sono sperimentate anche sensazioni negative: al 64,2% è mancata la compagnia dei colleghi e per il 53,9% le giornate lavorative sono state più noiose. Il 46,5% dei lavoratori ritiene di essere stato/a più efficiente nel lavoro (al contrario, il 53,5% pensa di no) ed il 45,6% ha avuto difficoltà a trovare indicazioni e coordinamento nel lavoro.
Oltre un terzo dei lavoratori (34,9%) ha avuto difficoltà di carattere pratico, avendo a disposizione strumenti (pc, smartphone, connessione Internet) inadeguati/insufficienti.
Mettendo a confronto le esperienze di uomini e donne in smart working, i primi affermano con maggior frequenza di essersi sentiti più liberi (60,5% contro 55,8%), mentre le lavoratrici più spesso dichiarano di aver trovato le giornate più noiose (56,5% contro 51,4%).Tra chi vive solosono più numerosi coloro che hanno sentito la mancanza dei colleghi – 68,2%, a fronte del 50%, in particolare, dei monogenitori con prole –, e coloro che hanno trovato le giornate lavorative più noiose – 64,8%, a fronte del 47,2% delle coppie con figli, del 53,6% dei nuclei monogenitoriali e del 55,2% delle coppie senza figli.
Lavoro in smart? Soprattutto “tecnomuniti”. Per quanto riguarda la dotazione di strumenti informatici, ormai indispensabile alla gran parte dei lavori, la maggioranza del campione (52,3%) riferisce di aver usato i propri (pc, smartphone, connessione Internet), al 39,8% sono stati forniti dall’azienda per cui lavora, mentre al 7,9% sono stati forniti/rimborsati in parte dall’azienda.
I risultati mostrano, da questo punto di vista, notevoli differenze sul territorio italiano. Nel Mezzogiorno la netta maggioranza dei lavoratori a distanza ha utilizzato i propri strumenti informatici: il 68,8% al Sud ed il 64,4% nelle Isole. La quota resta maggioritaria al Nord-Ovest (54,5%), mentre scende al 41,2% al Centro ed al 34,1% al Nord-Est. Al Nord-Est ed al Centro la dotazione informatica viene nella maggior parte dei casi fornita dall’azienda – rispettivamente nel 56,1% e nel 52,9%, contro il 24,8% del Sud ed il 20,3% delle Isole (dove il 15,3% riceve però un rimborso, anche parziale, da parte dell’azienda per la quale lavora). Anche la tipologia contrattuale risulta in relazione con le modalità lavorative in smart working. Il 78,1% delle partite Iva utilizza i propri strumenti informatici, lo fanno anche la maggioranza dei lavoratori atipici (58,2%) e dei subordinati a tempo determinato (52,2%). Tra i lavoratori a tempo indeterminato prevalgono i casi in cui la dotazione è a carico dell’azienda: nel 45,1% dei casi essa fornisce direttamente gli strumenti, nel 9,8% fornisce un rimborso, anche parziale.
Media e Covid-19
Infodemia o informazione? Gli italiani e i media. Forse mai come oggi gli italiani sentono il bisogno di informarsi ed essere informati: l’incertezza riconducibile alla pandemia ha generato una sete di notizie che ha coinvolto anche categorie fino a poco tempo fa meno interessate a Tg e mezzi di informazione.
Nel diluvio di notizie in cui verità, fake, teoremi, ipotesi e dicerie, si fondono e confondono, come si muovono i cittadini italiani? Quali mezzi prediligono per raccogliere informazioni e formarsi una propria opinione sull’emergenza sanitaria? Che cosa pensano delle notizie diffuse dai diversi canali?
A tutto Tg, ma il futuro dell’informazione viaggia online. Il mezzo preferito dagli italiani per raccogliere informazioni sull’emergenza sanitaria legata al Covid-19 sono i telegiornali (33,8%) e i quotidiani on line (22,3%). I quotidiani stampati si classificano al terzo posto con l’8,4% delle preferenze, immediatamente seguiti da talk show e programmi di intrattenimento (8,3%) e dai Social Network (8,1%), Alle spalle si piazzano le news radiofoniche (5%), magazine cartacei e chat social (entrambi fermi al 2,8%), e gli influencer (1,6%).
Le news televisive sono il canale di informazione preferito dagli over 64 (48,3%) e dai 45-64enni (31,7%), mentre i giovanissimi usano soprattutto i Social per informarsi (27,2%).
I talk show e i programmi di approfondimento televisivi sono un canale di informazione preferenziale specialmente per gli ultrasessantaquattrenni (10,5%), risultato che, sommato alla frequenza registrata in questa categoria per i telegiornali, fa di questa fascia d’età l’unica che si informa, nella maggior parte dei casi, attraverso la televisione (58,8%); mentre i più giovani utilizzano prevalentemente i canali on line (tra Social e quotidiani onlne in tutto 62,1% fra 18 e 24 anni; 50,9% fra 25 e 34 anni).
Pandemia: l’informazione è confusa. Il giudizio sulla qualità dell’informazione veicolata in merito alla pandemia da Covid-19 dai differenti canali mette al primo posto la confusione. Ad essere considerata più confusionaria è l’informazione veicolata dai Social Network (40%), seguono le comunicazioni ufficiali del Governo, del Ministero della Salute e delle Regioni (36%) ed infine quella offerta dai mezzi di comunicazione di massa (28,3%). I mezzi di comunicazione di massa sono anche quelli ritenuti più spesso in grado di fornire informazioni utili (25%), seguiti dalle comunicazioni ufficiali (23,9%), ma sono anche i più accusati di diffondere notizie allarmistiche, con il 22,8% di preferenze per questa opzione (17,6% Social Network e 12,7% comunicazioni ufficiali).
Le comunicazioni ufficiali provenienti dalle Istituzioni guadagnano il primato nell’essere considerate veritiere (20,1%), per i Tv, radio, ecc., la percentuale di quanti ritengono diffondano notizie veritiere scende al 9,2% e per i Social Network si abbassa ulteriormente al 4,5%. Questi ultimi sono invece più spesso giudicati asfissianti (18,5%); sono dello stesso parere relativamente ai mezzi di comunicazione di massa il 14,7% del campione e il 7,3% per quanto riguarda le comunicazioni ufficiali.
Nel complesso, gli italiani sono convinti che l’informazione più utile e veritiera sul Covid-19 sia quella veicolata dalle Istituzioni (in totale 44%), seguita da quella trasmessa dai mezzi di diffusione di massa (34,2%) e, a chiudere, quella che circola sui Social Network (23,9%).
Un anno di mascherine e distanziamento
La mascherina è soprattutto una protezione (37,7%) e una necessità in questo momento storico (31,7%) e viene anche considerata utile (12,2%). Non mancano però il 18,4% delle opinioni negative di chi pensa sia: un’imposizione (6,9%), un sopruso (5,8%) e qualcosa di inutile (5,7%). Soprattutto le fasce di età più giovani mostrano una certa intolleranza all’uso della mascherina (considerata una protezione solo per il 36,1% dei ragazzi fra i 18 e 24 anni e una necessità solo per il 29,6%). In totale, un giovane su quattro (25,5%) esprime un giudizio negativo sulla mascherina indicando che sia una imposizione, inutile o un sopruso.
Nonostante la mascherina sia indubbiamente scomoda e fastidiosa, il 42% del campione afferma di indossarla più spesso possibile e il 38,5% la utilizza in tutte le occasioni in cui questo dispositivo sanitario è prescritto dalle regole; poco meno di un intervistato su dieci cerca di indossarla il meno possibile (9,9%) e una percentuale simile lo fa solo quando si sente in pericolo (9,6%). Sebbene la maggior parte degli italiani indossi la mascherina tutte le volte che può o se previsto dalle regole, non è trascurabile il fatto che circa uno su cinque cerchi di evitarne l’utilizzo o lo limiti alle situazioni in cui percepisce un pericolo. Le donne sembrano essere più preoccupate dalla possibilità di contagio rispetto agli uomini, affermando prevalentemente di indossare la mascherina più spesso possibile (44,8%; 39,1% per gli uomini), mentre gli uomini affermano con più frequenza di utilizzarla solo quando previsto dalle regole (40,7% contro 36,3%).
La mascherina non ci fa sentire a nostro agio e ci mette in crisi sul piano della comunicazione. Quali sono le sensazioni associate all’uso della mascherina? La maggior parte dei cittadini (72,1%) afferma di non sentirsi ridicola/o, ma meno della metà dei rispondenti si sente a suo agio (41,6%). Nel 30,6% dei casi indossare la mascherina mette al riparo dal giudizio degli altri sebbene sono basse le percentuali di quanti attribuiscono alla mascherina un qualche effetto sul proprio aspetto fisico: il 22,5% si sente mortificato nel proprio aspetto; il 18,6% contrariata/o perché nasconde l’aspetto estetico e il 16,4% compiaciuto perché valorizza gli occhi e lo sguardo. Il disagio più diffuso è quello legato alla comunicazione, con il 56,5% di rispondenti che si dichiarano in difficoltà nel comprendere ed essere compresi dagli altri quando parlano.
Distanze e mancanze: sono mancati soprattutto gli amici. Circa 7 italiani su 10 non nascondono di soffrire il fatto di dover evitare i contatti fisici con alcune persone care (37,9% molto e 30,9% abbastanza). A sentire abbastanza la mancanza di alcuni familiari durante il lockdown è stato il 72% circa degli intervistati (37,9% “abbastanza”, 34,2% “molto”); mentre un totale del 27,9% afferma di aver sofferto poco (18,1%) o per niente (9,8%) questo aspetto. Ancor più dei parenti, agli italiani nel 74% dei casi sono mancati gli amici (“abbastanza” 40,2% e “molto” 33,8%), mentre la difficoltà a relazionarsi in modo sereno con gli altri è avvertita meno (58,1%).
Gli animali domestici hanno rappresentato per molti un’importante valvola di sfogo, una compagnia e in molti casi, l’opportunità per uscire di casa e i rispondenti riconoscono la funzione “terapeutica” dei propri pets: quasi la metà di chi ha animali domestici afferma che questi ultimi sono stati d’aiuto in circa l’83% dei casi per sentire meno la solitudine (“molto” 49,8% e “abbastanza” 33,1%).
Il ruolo del personale sanitario
Dovere o eroismo? L’Eurispes ha raccolto anche le opinioni degli italiani sull’operato del personale sanitario negli ultimi dodici mesi e sull’efficienza del Sistema sanitario nazionale. Il 39,1% degli italiani ritiene che medici e infermieri abbiano semplicemente fatto il loro doverenell’emergenza, ma è di poco inferiore la percentuale di quanti li reputano degli eroi (37,3%); solo il 7,2% pensa che abbiano affrontato l’emergenza in modo inadeguato, in molti però non hanno saputo esprime un giudizio (16,4%). L’idea che gli operatori sanitari abbiano solo compiuto il proprio dovere è maggiormente diffusa tra coloro che hanno un titolo di studio superiore (diploma o laurea) mentre il giudizio di un’impresa eroica è espresso con maggiore intensità tra quanti hanno una licenza elementare o nessun titolo di studio. Al Nord-Ovest del Paese è più netta la convinzione che medici e infermieri abbiano fatto il loro dovere (43,4%), mentre specialmente al Sud si afferma il pensiero che il personale ospedaliero sia stato eroico (47,7%). Nelle Isole si riscontra il numero maggiore di chi pensa che medici ed infermieri si siano dimostrati inadeguati (13,6%).
I medici di base: un punto di riferimento per 6 italiani su 10. La maggior parte degli italiani (60,8%) si è rivolto a loro per avere informazioni e consigli sul Covid-19 e, tra questi, il 39,9% afferma che il proprio medico di base si è dimostrato disponibile, mentre circa un intervistato su cinque (20,9%) risponde che il proprio medico non è stato disponibile. In molti però (39,2%) hanno scelto di non chiedere informazioni e consigli al medico di base. A ricorrere più spesso al medico di base sono state le fasce d’età più mature e considerate più a rischio (il 69,5% degli ultrasessantacinquenni). Tra quanti si sono rivolti al medico di base, hanno riscontrato più disponibilità gli abitanti del Sud (42,5%), mentre i medici del Nord-Est si sono dimostrati meno disponibili degli altri (il 27,1% non è stato disponibile).
Il giudizio sul Sistema sanitario nazionale: i medici italiani i migliori del mondo. Il 66% dei cittadini è convinto che i medici italiani siano i migliori al mondo. Il 62,5% degli italiani concorda (41% “abbastanza” e 21,5% “molto”) con il fatto che i medici italiani dovrebbero essere più valorizzati e più pagati. Per il 78,5% degli italiani l’emergenza sanitaria ha dimostrato che è decisivo investire di più sulla sanità pubblica rispetto a quella privata. Più bassa la quota di quanti condividono (molto e abbastanza) l’opinione secondo cui la pandemia ha comunque dimostrato l’inadeguatezza del Sistema sanitario nazionale (57,6%). Per il 73,9% del campione è condivisibile il pensiero che i medici italiani vanno a lavorare all’estero perché fuori dall’Italia hanno più riconoscimenti e maggiore possibilità di carriera.
Qual è il grado di fiducia attribuito dagli italiani al Sistema sanitario nazionale? Il 71,5% degli italiani esprime fiducia nel nostro Sistema sanitario (il 50,4% abbastanza fiducia e il 21,1% molta fiducia). Sono le regioni del Nord-Est del Paese ad esprimere il tasso più alto di gradimento nel SSN raccogliendo, complessivamente, l’86,7% dei giudizi positivi.