di Barbara Alessandrini
La verità ha un suo potenziale emergente che non tollera di essere tenuto nascosto troppo a lungo. Così qualcuno scriveva e così la narrazione dominante della pandemia da Covid-19, corroborata finora dai protocolli di cura imposti dalle istituzioni e dall’industria farmaceutica, comincia a mostrare le sue crepe.
Ne è stata clamorosa conferma nei giorni scorsi, sebbene accuratamente taciuta dai media mainstream, la rapidità con cui le Regioni, Lazio per primo, seguito dal Molise e a breve dall’Abruzzo, e tutto promette che si adegueranno anche le altre regioni, dopo una importante sentenza del Tar del Lazio, pronunciata qualche giorno fa, stanno dando il via libera alla fase attuativa della cura domiciliare promossa da mesi dal “Comitato di medici Covid-19, cure domiciliari”.
Capitanato legalmente dagli avvocati Erich Grimaldi e Valentina Piraino, il comitato ha presentato ricorso al Tribunale amministrativo del Lazio contro il rigido protocollo voluto dall’Aifa e dal Ministero della Salute con la nota del 9 dicembre 2020 che imponeva nel setting domiciliare dei pazienti Covid-19 il modus operandi della “Tachipirina e vigile attesa”. La scorsa settimana è arrivata la conferma giuridica dell’ordinanza del Tar alla posizione contenuta nel ricorso del “Comitato di medici Covid-19, cure domiciliari”, ormai arrivato a più di 150mila contatti su Fb. Una buona notizia nonché di tale rilevanza da sollevare interrogativi sul silenzio che il sistema mediatico così ossessivamente solerte ai pronunciamenti giudiziari, ha, salvo in rari casi, solertemente ignorato. Già, perché il Tar riconosce di fatto il sovversivo per quanto sacro principio che i malati non si lasciano in vigilante attesa ma si curano. E ai medici va accordato il diritto-dovere di utilizzare i farmaci che “in scienza e coscienza” ritengono più opportuni al quadro clinico di ciascun paziente.
Facile e scontato, no? Chiunque lo avrebbe detto prima che Sua Maestà Protocollo pervadesse il sistema sanitario. Fatto sta che il Tar del Lazio ha stabilito che decide il medico se, come e quando somministrare ai pazienti Covid a casa antinfiammatori, e non tachipirina che l’infiammazione la favorisce, cortisone, antibiotici, eparina ecc..
Se il ricorso è stato ritenuto “fondato” dal Tribunale, tanto più fondata è stata accolta la richiesta dei medici “di far valere il proprio diritto/dovere, avente giuridica rilevanza sia in sede civile che penale, di prescrivere i farmaci che essi ritengono più opportuni secondo scienza e coscienza”. Diritto, questo, e qui il Tar compie un passo ulteriore, che non può essere “compresso nell’ottica di una attesa, potenzialmente pregiudizievole sia per il paziente che, sebbene sotto profili diversi, per i medici stessi”.
C’è un giudice nel Lazio, dunque, e ha il merito di aver squarciato il velo sulle quantomeno dubbie verità protocollari imposte e seguite finora per volontà dell’Aifa e del Ministero della Salute e destinate ad essere sostituite da prassi terapeutiche domiciliari difformi da quelle disposizioni. Tanto più che con la scelta dei medici “divergenti” di non adeguarsi per i mesi passati al protocollo Aifa-Ministero della Salute i pazienti domiciliari del Comitato Covid-19 e applicare schemi terapeutici “cuciti” su ciascun paziente ha evitato quel precipitare delle condizioni cliniche che spediscono i malati nel peggiore dei casi nelle terapie intensive e nel migliore nei reparti Covid. Comunque destinati all’ospedale ed a far impennare numeri, statistiche e percentuali dei ricoveri per Covid-19 che ogni giorno, da febbraio scorso, i media ci comunicano alimentando una narrazione della pandemia in cui sono presenti evidenti “gap narrativi”. Naturale farsi qualche domanda partendo proprio dai fatti che registrano da una parte la mancanza di eventi avversi nelle persone tempestivamente “curate” e salvate da quella tempesta citochimica che apre l’autostrada all’ospedalizzazione e alla terapia intensiva e dall’altra la “vigilante attesa con tachipirina”. Come si perdonino quei cittadini che sempre più insistentemente si stanno non troppo filosoficamente interrogando sulla differenza tra industria farmaceutica e ricerca farmaceutica.
Le possibili implicazioni di quell’“attesa potenzialmente pregiudizievole”, d’altronde, in chi è ancora allenato all’esercizio del dubbio, nonostante la censura dilagante che anche in Italia sta silenziando le voci non allineate al racconto prevalente, sollevano quesiti: in attesa di cosa? Dato che proprio tutte le cifre e le percentuali convergono sulla drammatico fallimento delle disposizioni dell’Aifa-Ministero: troppi individui, lasciati ad attendere pazientemente. Troppo, fino all’ospedalizzazione, se va bene. In tale plumbeo susseguirsi di interrogativi c’è una certezza: chi seguita a godere di ottima salute è lo storytelling del virus Covid-19, che ogni giorno ci fornisce le percentuali dei ricoveri ospedalieri e nelle terapie intensive. Il consenso e l’affidamento alle magnifiche strette e progressive è anch’esso messo in salvo. Come anche la placida rinuncia e cessione dei diritti di autodeterminazione da parte di un tessuto sociale ormai stremato ed impaurito che fa a spintoni per un vaccino, non sufficientemente sperimentato, la cui copertura è di soli cinque mesi, ma sulla cui somministrazione grava la nera cappa del gioioso e partecipato dovere etico, perché metterà tutti in sicurezza