Nemmeno il colonnello Tejero aveva fatto una figura simile. Ve lo ricordate quel marmittone della Guardia Civil, col cappello a cornetta di telefono a disco selettore, irrompere nell'aula delle Cortes per dichiarare un colpo di Stato subito stroncato nel ridicolo? Ecco. La Superlega appena nata è già finita, grazie a una Brexit all'incontrario: con uno humour molto british, stavolta gli inglesi salvano l'Europa, quella del calcio, e Boris Johnson esulta.
La controsecessione di sei promotrici su dodici, le società di Premier, ricolloca la Superlega nella stessa geografia immaginaria che ospita il Principato di Seborga, l'Isola delle Rose e il Regno di Tavolara. E ne piazza i promotori in quel giardino dove tutti circolano con lo scolapasta in testa e si credono Napoleone. Incredibile come non fosse stata messa in conto dagli ideatori la reazione durissima del sistema Fifa-Uefa: un errore previsionale che è l'allucinante segno del dilettantismo infantile dell'intera operazione. Sgomenta l'idea del più bel giocattolo del genere umano finito nelle mani di gente così.
Ci piace pensare che a vincere sia stata la ribellione dei tifosi. Forse però il moto popolare non sarebbe bastato, se Infantino (Fifa) e Ceferin (Uefa) non avessero mostrato, come facevano gli inquisitori agli eretici suggerendo abiura, gli strumenti di tortura: radiazioni, squalifiche, cancellazioni dalle competizioni in corso. Tutto sommato, la Superlega è stato il duplice massimo delitto degli uomini delle istituzioni: alto tradimento e attentato alla Costituzione.
Se davvero possiamo parlare di scampato pericolo, non ci si può illudere in automatico che la lezione serva. Perché la vera aberrazione della Superlega non è la formula, ma la motivazione: fornire ossigeno finanziario ai grandi club indebitati, in un calcio che ha assunto una configurazione neoplastica, dove i soldi che arrivano non fanno che aumentare il bisogno di altri soldi.
Eppure, se le società di primissima fascia spendono più di quanto guadagnino, la strada sana sarebbe ridurre i costi, non quella perversa di trovare altri denari da buttare in un secchio sfondato.
Chi ha fatto il passo più lungo della gamba e ora ha bilanci disastrosi? Si arrangi. Sono fallite – cose di casa nostra – società campioni in Italia e in Europa come Torino, Bologna, Parma, Fiorentina e Napoli. Possono fallire e ricominciare anche le altre, che abbiano sbagliato i conti e osato troppo.
Questa sarebbe l'occasione per provare a rigenerare un sistema malato, dove è confluito l'oceano di denaro delle televisioni a pagamento, miliardi e miliardi che non hanno giovato al calcio, ma ne hanno in parte miracolato la forza lavoro (allenatori e calciatori, al calcio per essere giocato non servirebbe molto altro), creando di contro un parassitismo diffuso e attraendo il peggio del peggio.
È una stupidaggine adesso parlare di tetto salariale, sarebbe il trionfo del "nero" e saremmo daccapo. Ed è in malafede – ce ne sono – chi predica riduzione degli stipendi, ma solo di quelli altrui. È inoltre un'idiozia voler applicare al calcio il delinquenziale ossimoro della "decrescita felice".
Chi può spendere spenda. È sempre stato così. Anche se la vita è breve e può capitare prima di godersi un Mantovani che investì una fortuna per la Sampdoria e poi di veder applaudito, dagli stessi tifosi che si erano goduti Mantovani, un suo successore che predicava contro il pessimo esempio dei presidenti di manica larga. Chi è in grado di investire investa. Il calcio torni a essere non il terreno di scorribande degli avventurieri, ma il passatempo di chi se lo può permettere. Però che usi soldi veri e suoi, non facendo scommesse sulla pelle dei tifosi e dell'erario.
Non è quindi che il calcio certamente guarisca in automatico, una volta fermata la Superlega. Era malato da prima e anzi questa trovata è la conseguenza di una strategia quasi trentennale. Perciò adesso tutta la pura passione sportiva, sbandierata in queste ore, la vorremmo vedere applicata nel concreto, altrimenti ci verrà il sospetto che l'"altolà" impartito ai secessionisti sia stato soltanto un momento di una guerra per bande ai fini di spartizione del bottino.
Il calcio era e resta un malato grave, polo di attrazione di faccendieri e pirati, uno dei contesti più favorevoli per chiunque voglia fare affari poco chiari e sappiamo che di gente così ce n'è. Sarebbe quindi ora di togliere il calcio dalle grinfie di personaggi opachi che ormai sono la regola e non l'eccezione. Così come si ponga un limite alle proprietà neocoloniali o anonime, che snaturano il senso stesso della passione sportiva. Senza tv e fondi esteri gireranno meno soldi? Pazienza, tutto il sistema si rimodulerà nel senso di una riduzione dei costi inutili. Cioè di quasi tutti.
Occorre liberare il calcio dallo strapotere dei satelliti e delle parabole e dei decoder e restituire alle persone il piacere di andare allo stadio e soprattutto in trasferta, un rito deliberatamente scoraggiato, con il pretesto dell'ordine pubblico, in funzione degli abbonamenti televisivi. E chissà poi alla fine se in termini di PIL l'impatto delle tv sia maggiore di quello dell'indotto (benzina, autostrada, noleggio pullman, biglietti ferroviari, autogrill, bar, ristoranti, alberghi e biglietti dello stadio). Le trasferte sono state per almeno tre generazioni di tifosi la vera scuola di passione sportiva.
Tutto questo non esiste più. Svuotano gli stadi eppure non parlano che di costruirne di nuovi.
Se davvero maggiorenti e tifosi sono riusciti a fermare la Superlega, adesso ricomincino a parlarsi. Fifa ed Uefa, come Figc e Lega, ascoltino una buona volta chi per il calcio vive, non solo chi ci vive o vuole venirci a vivere. Sennò la prossima volta ci riproveranno ad ammazzarlo. È l'ultima chiamata per quello che fino a trent'anni fa, con tutti i suoi limiti, era stato lo sport più amato e popolare del mondo. E adesso è prigioniero. In una cella a forma di scatola, con tanti fili elettrici e circuiti stampati, cinque lati di plastica e uno di vetro.
di Stefano Rissetto