Matteo Salvini vuole “accorciare il coprifuoco”, farlo slittare alle 23. Giorgia Meloni lo scavalca: “Un misero contentino, andrebbe abolito”. È furibonda, raccontano: l’occupazione del Copasir è stata l’ultima goccia in un vaso che pochi mesi di governo Draghi hanno riempito fino all’orlo. Neppure le dimissioni di Urso e del forzista Vito hanno fatto “rinsavire” il leader della Lega, che alle richieste di “chiarimento politico” tira dritto. A cascata, nel centrodestra è stallo su tutto: i candidati delle comunali di autunno, gli organismi parlamentari a composizione mista, le nomine Rai, gli spazi televisivi. E dove non si sta fermi, ci si divide: come sulla collocazione al Parlamento europeo. O sulla mozione di sfiducia FdI contro Speranza, che i più maligni leggono fatta apposta per mettere in imbarazzo il Capitano.
Ci sarebbe da non stupirsene. Ci si potrebbe chiedere: cosa c’è da chiarire visto che un partito, la Lega, è in maggioranza, e uno, FdI, all’opposizione? E soprattutto, visto che dividersi per poi ricompattarsi alle urne è una storica (e vincente) strategia del centrodestra. La rivendica Meloni stessa dalle pagine di “Panorama”: “Mi auguro che questa parentesi Draghi, finora deludente, finisca quanto prima, a quel punto il centrodestra si presenterà con un programma comune”. Già: ma con quale leader? L’ultimo sondaggio, del 15 aprile, così fotografa la situazione: Lega primo partito al 22,4%, seguito dal Pd di Letta al 18,8%, FdI terzo partito al 17,4%, poi i grillini al 17%. Cinque punti tondi di distacco per Salvini. Il trend, tuttavia, non lo premia: “In questa fase Matteo viene percepito come ripetitivo – argomenta un meloniano – Giorgia come ragionevole e moderata. Il paradosso è che lui sembra più all’opposizione di lei”.
Anche questa non è una novità: il partito di lotta e di governo è lo schema su cui Salvini ha imperniato la sua avventura nel Conte Uno, vincendo la scommessa. Il 2019 è l’anno in cui il Carroccio prende il 34,3% alle Europee, tocca il 37,1% alle regionali in Piemonte, apre la “crisi del Papeete” forte di un 36,8% nelle rilevazioni. Alle stesse Europee, Fdi si attesta al 6,46%. Stavolta, però, il gioco non sta funzionando. Intanto, Draghi non è Conte. Al posto dell’”avvocato del popolo”, dell’homo novus Cinquestelle, del vagheggiato “punto di riferimento dei progressisti” c’è l’ex presidente della Bce, l’uomo del quantitative easing, Supermario, il castigamatti dell’austerity tedesca, il prossimo uomo forte dell’Europa intera appena Merkel saluterà.
In palio ci sono un’idea diversa di Ue (gli “occhi nuovi” con cui guardare alle regole di bilancio), la messe del Recovery, la scommessa senza tempi supplementari della crescita con un debito pubblico che sfiora il 160%, e speriamo davvero che sia “buono”. Togliere Draghi, toglierebbe il fiato. Salvini lo sa e si frena: attacca Speranza ma non affonda; alza la voce ma non porta a compimento; minaccia di non votare i decreti che i suoi ministri hanno ratificato nelle sedi preposte. Perché l’altro elemento di instabilità e malumore arriva proprio dal cambiamento dei rapporti di forza nel centrodestra. Con Forza Italia inabissata, la competizione tra FdI e Lega è priva di mediazioni. Due partiti quasi alla pari che condividono le parole d’ordine – sovranismo, libertà individuali, lotta all’immigrazione, lavoro autonomo, flat tax, partite Iva, sblocco degli sfratti – solo che uno è più libero di pronunciarle dell’altro.
Le sorti dell’incontro sono alterne. Sul Copasir si guerreggia ancora. In Vigilanza, Daniela Santanchè si è spinta a chiedere per Fdi – invano - un terzo degli spazi nei tg. A Milano, Ignazio La Russa ha congelato la candidatura a sindaco di Albertini avanzata da Salvini, a Roma Bertolaso ha fatto la stessa fine. Solo a Torino c’è un nome condiviso: l’imprenditore delle acque minerali Paolo Damilano, grande amico di Giorgetti ma in buoni rapporti con tutti. Meloni rastrella classe dirigente locale, puntando sul Nord e sui territori produttivi. “Voglio che Fdi cresca, ma non a discapito dei miei alleati”, ha detto. I conti si faranno alla fine.
FEDERICA FANTOZZI