A Cascais, in Portogallo, dove in 600 “leader mondiali” si sono riuniti per 3 giorni per discutere del futuro del mondo, ho avuto la dolorosa e umiliante sensazione di quanto sia marginale l’Italia. C’era gente da tutto il mondo, 70 Paesi dice Frank-Jurgen Richter, presidente di Horasis, lo spin off del World Economic Forum di Davos che per il terzo anno ha scelto l’Europa del Sud come sede per questo convegno, superbamente pianificato e organizzato, dalla scelta del temi, la composizione dei panel di discussione.
Riunioni plenarie, tavole rotonde specialistiche, fino a 5 contemporaneamente. Uno poteva aggirarsi da una sala all’altra e uscirne con qualche nozione in più e la sensazione di quanto grande sia il mondo, non in termini geografici, ma politici, culturali e soprattutto di commerci e industrie. Attorno ai tavoli, qualcosa di più dell’Onu, piuttosto una selezione di alto livello della classe dirigente mondiale. Qualche nome di richiamo (Barroso, El Baradei), un paio di senatori americani, alcuni grossi imprenditori della new economy, tante teste pensanti la cui scelta non può che giustificare ammirazione per questo tedesco che l’ha organizzata, tedesco nel nome e nell’accento e forse anche nella cura della pianificazione, molto latino nella creatività, se si devono rispettare i luoghi comuni.
Al di là dei singoli temi trattati, dallo sviluppo al terrorismo, dal sogno americano alle prospettive dell’Africa, dall’immigrazione al “groviglio del Medio Oriente”, dalla corruzione ai rapporti di forza in Asia, dalla disoccupazione ai robot, quello che mi ha colpito è stata la nota di ottimismo comune a tutti quelli che ho sentito parlare. Qualche nota stonata nella lamentosità delle donne e nel vecchio refrain delle colpe del colonialismo. Tutti suonavano la stessa ottava. I problemi sono tanti, il problema è come superarli. Domina la convinzione sul declino dell’Occidente, che il futuro sia in Asia e soprattutto in Africa.
In 10 mila, in un Paese dell’Africa sub sahariana, si sono presentati per una conferenza sul potenziale di sviluppo rappresentato da Internet. Le comunicazioni hanno cambiato il mondo. In Africa i contadini vanno a lavorare nei campi col telefonino in mano. Non ho sentito nominare l’Italia mai, nelle pubbliche riunioni, se non da me stesso. A tu per tu, ti interrogano preoccupati. Cosa succede in Italia con i populisti? E Berlusconi è ancora lì? Un finanziere di private equity ricorda in modo positivo solo un italiano, Giovanni Agnelli, l’avvocato. Ha visto il documentario su Netflix e è rimasto colpito dalla grandeur principesca dell’uomo che traghettò la Fiat negli anni più bui della storia d’Italia e fu determinante nella svolta del 1980 che salvò l’Italia dal baratro.
Sul telefonino leggevo Blitz, la pantomima di Di Maio e Salvini. Quello che fanno non è così disdicevole, in politica tutto è permesso. Consolatevi pensando alla più grande democrazia del mondo, dove dal primo giorno in cui è stato eletto Donald Trump è nel mirino dell’impeachment, come lo fu Bill Clinton prima di lui. Clinton per una storia da Rifugiati di Altona, Trump per un sospetto russo conseguenza, forse delle sue intemperanze amorose. Quello che deprime è che ci sia fra un quarto e un terzo degli italiani che abbiano creduto alle promesse del gatto e della volpe di Pinocchio, all’albero degli zecchini d’oro, ai panini imburrati di sopra e di sotto. I loro nonni votarono Mussolini, i loro padri Togliatti.
Mi dice un americano: “Alla fine Andreotti è stato il miglior politico italiano del dopoguerra”. In Italia si parla di reddito di cittadinanza, di patrimoniali, di sempre nuove tasse. In Portogallo si parla di sviluppo, in inglese. Mi piacerebbe sentire Di Maio o Fico. Qui, il sindaco di Cascais (200 mila abitanti, ex soggiorno di re in esilio, oggi mega suburbio di Lisbona, un treno ogni 20 minuti, unico litorale decente in una riviera che di più brutto c’è solo Torvajanica) parla un inglese fluente e scandisce con orgoglio: abbiamo il 60 per cento dei laureti donne, abbiamo i giovani preparati, le infrastrutture, le tecnologie. Eravamo scelti per la manodopera a basso costo, oggi siamo pronti a diventare il motore dello sviluppo europeo. Sarà un po’ gettare il cuore oltre l’ostacolo, ma ossigeno rispetto alla decrescita felice di Beppe Grillo.
Nato a Savignone, nell’entroterra di Genova, cresciuto a Terralba, quartiere popolare di Genova, interpreta il peggio del pessimismo genovese, del maniman. In Portogallo sognano, in America, in Africa, in Asia sognano. In Italia, belin, ma cosa volete, dateci un po’ di palanche e lasciateci a prendere il sole.
Marco Benedetto