Tavola periodica degli elementi. Numero atomico 27. È il cobalto, chimicamente un minerale di transizione. Definizione che difficilmente oggi potrebbe essere diversa: il cobalto necessario alla produzione delle batterie al litio accompagnerà l’industria automobilistica nel suo graduale processo di elettrificazione.
Duro, lucente e di color grigio argento, ha la proprietà di immagazzinare grandi quantità di energia in piccole masse, con elevata resistenza alle alte temperature (il punto di fusione è a 1.495 gradi centigradi). Difficile –se non impossibile– farne a meno quando si tratta di batterie. Su un’auto elettrica, in media, ci sono tra i 4 e i 14 chilogrammi di cobalto (in funzione della capacità della batteria), su un ibrida ricaricabile plug-in meno di 4 chilogrammi.
È sufficiente moltiplicare questa quantità per il numero di veicoli elettrici previsti nei prossimi mesi per capire l’importanza fondamentale del cobalto nel nostro futuro (senza dimenticare il suo utilizzo – tra i 5 e 20 grammi – nelle batterie per smartphone). Una sorta di oro del futuro al quale tutti guardano con attenzione e voglia di far profitti.
Non è un caso che siano molti i fondi pronti a investire milioni sul cobalto e le quotazioni volano: alla London Metal Exchange il valore, mentre scriviamo, è di circa 93 dollari a tonnellata, l’86% in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Secondo Darton Commodities Limited, uno dei principali fornitori di cobalto a livello mondiale, il fabbisogno del minerale per il 2020 sarà di oltre 120mila tonnellate, in crescita rispetto alle 109.500 del 2017.
L’United States Geological Survey stima che le riserve di cobalto siano di circa 7 milioni di tonnellate, quasi la metà di queste sono nella Repubblica Democratica del Congo. Nel 2016, sempre secondo Darton, circa il 67% del minerale è stato ricavato in miniera come sottoprodotto dell'estrazione del rame (un altro 32% arriva dal nickel).
Un sistema di produzione spesso artigianale e non sempre sostenibile: incidenti quotidiani, malattie respiratorie e genetiche per i lavoratori (secondo l’Unicef sono più di 40mila i bambini che lavorano ogni giorno nelle miniere di cobalto) sono state evidenziate dalle inchieste del Washington Post che trovate, in forma di foto e video, facilmente in rete.
Poveri che diventano più poveri e malati, ricchi sempre più ricchi. Non solo. Il problema si chiama anche concentrazione: la maggior parte dell’estrazione del cobalto è nelle mani della svizzera Glencore che nel 2017 ha prodotto 27 mila tonnellate nelle sue miniere di
Congo, Australia e Canada (altro player è China Molybdenum). Arriverà a 38 mila nel 2018 e punta alle 63 mila nel 2020, più della metà del fabbisogno stimato da Darton.
Strategia che non sembra per nulla influenzata dall’annunciato aumento da parte del governo congolese, degli oneri fiscali a carico delle aziende minerarie straniere, con royalties che dovrebbero salire dal 2 al 10%, portando qualche risorsa in più a chi, quel patrimonio non più segreto, lo ha nel suo territorio. Una volta estratto e venduto, il cobalto viene raffinato. Anche in questo caso siamo di fronte ad una posizione dominante, quella della Cina.
Secondo gli analisti dell’inglese Cru Group, società specializzata in analisi sui mercati delle materie prime, il 70% della raffinazione del cobalto è nelle mani di aziende cinesi. La stessa Glencore ha siglato un accordo con la Gem di Shenzhen per la vendita di 52.800 tonnellate di cobalto in tre anni. Una strada senza ritorno che potrebbe mettere nelle mani dei produttori cinesi di batterie, gli ambiziosi piani di lancio di veicoli elettrici da parte dell’industria europea. Dipendenze pericolose.