L'Amazzonia brasiliana non è mai stata così a secco. Nel senso letterale, meteorologico del termine: ampie zone della più grande foresta pluviale del pianeta sono in condizioni di secco estremo, in particolare nella parte orientale e meridionale del bacino amazzonico.
Questo dovrebbe far scattare un allarme, anzi più d'uno. Nell'immediato, perché si avvicinano i mesi più asciutti dell'anno, quelli in cui la deforestazione si intensifica e così anche gli incendi. Molti temono una nuova "stagione del fuoco", come quella che aveva catturato l'attenzione mondiale nell'estate del 2019 (strano però: nel 2020 gli incendi non sono stati da meno, ma il mondo non ci ha fatto caso). Più a lungo termine, perché l'interazione tra siccità e deforestazione è ormai ben dimostrata, e molti temono che si avvicini il "punto di non ritorno" in cui gran parte della foresta amazzonica sarà sostituita dalla savana.
Ricapitoliamo. Il primo fatto è che il ritmo della deforestazione sta raggiungendo nuovi record. In maggio sono scomparsi 1.390 chilometri quadrati di foresta, secondo il sistema di rilevazioni satellitari dell'Inpe (l'Istituto brasiliano di ricerca spaziale, che ha un sistema di monitoraggio specifico per la regione amazzonica). È il 67% più che nel maggio del 2020, e più che in ogni altro mese di maggio dal 2008. Lo stesso era successo in aprile.
I mesi critici però devono ancora arrivare. La deforestazione ha un ciclo stagionale; durante la stagione piovosa, tra novembre e febbraio-marzo, rallenta; inoltre le nuvole immense che coprono la regione rendono più difficili le osservazioni satellitari (qualunque cosa sia successa sul terreno, i satelliti lo vedranno nelle settimane successive, cioè ora). Nella stagione asciutta, quando è più facile muoversi sul terreno, il lavoro dei disboscatori ricomincia: in parte per il legname pregiato, in parte per liberare terreno da coltivare, o trasformare in pascoli, o per nuove ricerche minerarie.
Quello che conta dunque è il bilancio annuale. Secondo l'Inpe, l'anno scorso (da agosto 2019 a luglio 2020) sono scomparsi poco più di 11 mila chilometri quadrati di foresta, il livello più alto dei dodici anni precedenti, e quest'anno le cose si preannunciano anche peggio.
Il secondo dato è che i centri di monitoraggio hanno già segnalato i primi grandi incendi, in anticipo sul solito andamento stagionale: anche gli incendi si sviluppano in estate. Gran parte dei grandi incendi sono appiccati di proposito su terre appena disboscate per "aprire" il terreno a nuove attività. Succede lungo quello che i brasiliani chiamano "l'arco della deforestazione", una grande mezzaluna che circonda l'Amazzonia da est a ovest, dai confini meridionali della regione forestale verso il suo centro. La deforestazione si spinge sempre più all'interno della foresta pluviale, e così anche gli incendi. Le zone ai bordi tendono a essere più calde e secche rispetto a quelle più fitte; dove la foresta è frammentata dall'avanzare di deforestazione e incendi, l'ecosistema diventa più vulnerabile e la distruzione accelera.
Oggi diversi osservatori sono in allarme e temono una nuova stagione di incendi. Si ricorderà che nell'estate del 2019 la situazione è sfuggita al controllo anche perché disboscatori, fazenderos e allevatori avevano perfettamente afferrato il messaggio del presidente Jair Bolsonaro, che parlava di "aprire" l'immensa foresta allo "sfruttamento economico moderno". Dimostrandosi così un degno erede dei governi militari che negli anni '60 e '70 avevano cominciato a aprire strade in Amazzonia per mandare contadini senza terra a colonizzare quel territorio spopolato, e mettere a frutto le sue ricchezze naturali.
Il rovescio del sogno "sviluppista" è che quella terra non era affatto vuota, c'erano nativi che sono stati cacciati ai margini; del resto anche i poveri coloni sono finiti per lo più a lavorare nelle piantagioni di pochi grandi proprietari terrieri (oggi celebrati imprenditori del moderno "agribusiness"). Inoltre, c'era un malinteso. Ll'ecologia amazzonica dipende dalla sua vegetazione: gran parte della terra sottostante è povera. Denudato, il territorio perde il suo humus, s'impoverisce, le coltivazioni richiedono sempre più input artificiali, la savana prende il sopravvento.
E torniamo al punto: la siccità. Sembra quasi impossibile, in una foresta pluviale umida per natura. Invece episodi di siccità sono già avvenuti nell'Amazzonia brasiliana nel 2005 e nel 2010, e ora uno studio internazionale guidato dall'Università di Leeds segnala che siamo in una situazione simile, perché la riduzione delle piogge invernali segnalata allora è paragonabile a quella dell'inverno appena trascorso. E che il rischio di uno scenario estremo di cambiamento climatico è molto più alto di quanto si possa pensare.
Il fatto è che anche il ciclo idrico della foresta amazzonica dipende dai suoi alberi: l'umidità evapora e fa da regolatore termico, e il vapore acqueo ricade sotto forma di pioggia. La foresta dipende dall'acqua che cade, e le piogge dipendono dalla foresta. Se la foresta scompare, l'equilibrio salta.
La somma di deforestazione e incendi inoltre rilascia grandi quantità di carbonio nell'atmosfera: così la crisi dell'Amazzonia aggrava il cambiamento del clima e a sua volta ne è aggravata. Molti studiosi paventano che si avvicini il punto di non ritorno, quando la foresta rilascerà più anidride carbonica di quanta ne possa assorbire.
Dunque siamo sull'orlo di una nuova annata di siccità e di una nuova stagione di incendi, la deforestazione aumenta, e l'Amazzonia rischia di trasformarsi in savana. Basterà a far scattare l'allarme?
Marina Forti