La Camera dei deputati ha approvato il 3 agosto scorso, in prima lettura, la cosiddetta “Riforma Cartabia” ed a settembre il testo che verrà esaminato dal Senato, salvo improbabili intervent sarà quello definitivo che si basa su una serie di emendamenti all’originario disegno di legge Bonafede. La scelta di emendare il testo “Bonafede”, confermando la struttura dell’impianto e sostituendo integralmente il contenuto, evidenzia che si tratta di un compromesso senza coraggio poiché non si è voluto azzerare il testo “Bonafede”, creando il rischio di garantire l’impunità ad alcuni e trasformando in vittime gli innocenti del processo. Se, infatti, la “riforma Bonafede” si basava su una sorta di “fine processo mai”, con una prescrizione rinviata all’infinito, anche l’improcedibilità – che tra l’altro crea trattamenti immotivatamente diversi per gli imputati di alcuni reati rispetto ad altri - ha gravi conseguenze sia per quel che riguarda gli innocenti, sui quali graverà sempre il sospetto, sia verso i colpevoli, i quali tirandola per le lunghe potranno arrivare ad ottenere l’agognata impunità.

In entrambi i casi si conferma la resa dello Stato di fronte alla sua incapacità a contenere i tempi del processo e, quindi si continua a negare il diritto alla giustizia mentre a pagare sono i cittadini che quella giustizia a loro dovuta non riescono ad avere. La UE, tra le altre riforme indispensabili in vista del riconoscimento dei fondi del PNRR, ha posto anche quella relativa alla concreta riduzione dei tempi dei processi, e non si può certo dire che la “riforma Cartabia” raggiunga quest’obiettivo, poiché non affronta il cuore della questione, la difficoltà, come detto, di giungere a sentenza definitiva in tempi ragionevoli. Anzi, il disegno di legge “Cartabia” contribuisce semmai a peggiorare la situazione sotto alcuni aspetti. In particolare, sembra aver ragione chi, come il procuratore Gratteri, afferma che l’improcedibilità non velocizza i processi, ma che al contrario ne moltiplica il numero, ed incoraggia anche le impugnazioni strumentali volte ad allungare i tempi. L’improcedibilità, di fatto, si limita tagliare il numero dei processi che giungono ad un accertamento definitivo, mandando però così sprecate le risorse umane ed economiche impiegate fino a quel momento nel processo, oltre a mortificare le legittime aspettative di Giustizia di tanti cittadini.

Inoltre, per quel che riguarda i processi penali con statuizioni civili in primo grado, essi dovranno proseguire in sede di giustizia civile, con la conseguenza di gravare ancor di più su questo settore che già oggi versa in maggiori difficoltà. La lentezza del processo è anche una zavorra per lo stesso sviluppo del Paese, poiché costituisce un considerevole disincentivo all’investimento di capitali, dato che è davvero difficile pensare di investire in Italia, laddove vi è il concreto rischio di non ottenere mai giustizia in caso di controversia. Una riforma che abbia come obiettivo la riduzione dei tempi del processo, non può prescindere dalla depenalizzazione dei reati minori che tanto inutilmente impegnano i nostri Tribunali, come ad esempio il reato di immigrazione clandestina, né dall’incremento delle risorse umane e strumentali, aumentando il numero di giudici, dei cancellieri, dei segretari e del personale tecnico; occorre attuare l’ufficio del processo ed estendere il processo telematico e la digitalizzazione anche in ambito civile e penale.

Infine, la norma della riforma Cartabia la quale prevede che il Parlamento debba dare indicazioni sulla priorità rispetto all’esercizio dell’azione penale, è chiaramente incostituzionale nonostante le timide difese del Governo al riguardo. Si tratta, infatti, di una norma che comporta un’evidente ed indebita interferenza del potere legislativo sull’autonomia e sull’indipendenza dell’ordine giudiziario. La “Riforma Cartabia”, quindi, evidenzia una debolezza strutturale dovuta ad un accordo di basso livello che ha cercato di far contenti tutti i componenti della maggioranza ma che non ha reso nessun servizio alla Giustizia e, quindi, ai cittadini. Ancora una volta siamo di fronte ad una resa della politica, che si limita a “tirare a campare”, sebbene questa maggioranza avrebbe la forza per imporre una vera riforma di struttura. La vera politica, invece, dovrebbe avere l’ambizione ed il coraggio di non abdicare al proprio ruolo, anche scomodo talvolta, ed intervenire con decisione laddove necessario, evitando quel piccolo cabotaggio che certo non è quel che serve oggi all’Italia.

GREGORIO DE FALCO